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Il club dei ricchi e quello dei poveri

Carlo Alberto Tregua

Il club dei ricchi e quello dei poveri

martedì 04 Agosto 2009

Obama in Ghana, “Fate voi”

Ci ha colpito quello che ha detto Barack Obama nella sua visita in Ghana: “Yes, you can”, come dire “datevi da fare”. Si tratta di un modo di pensare non assistenzialista e ci ricorda tanto, invece, il comportamento di tutte quelle aree sviluppate del mondo che, nei confronti dei popoli alla fame, pensano di inviare loro generi di prima necessità tra cui alimenti, farmaci e vestiario, con ciò mettendo a posto la coscienza. Inoltre, i Paesi ricchi impoveriscono ulteriormente quelli poveri perché sottraggono loro le materie prime pagandole a prezzi da fame.
è consequenziale un’inversione di rotta dei cosiddetti aiuti dalla parte ricca a quella povera del mondo e cioè non più assistenzialismo, bensì aiutare le popolazioni a crescere e diventare autonome nei decenni futuri. In breve, si tratta non di “fornire il pesce, ma di insegnare a pescarlo”.
Dunque, aiutare le popolazioni ad autogestirsi e, prima ancora, sollecitarle a fare tutto il possibile per innescare un processo di autosviluppo.

La formazione e la conoscenza sono le due leve per la crescita economica e sociale di un Paese. L’ignoranza è, invece, la sua pietra tombale. In un sistema di competizione globale la manodopera, se non di adeguato livello, costituisce una zavorra. Gli esseri umani, anche quando non sono capaci di produrre ricchezza, hanno il diritto di vedere soddisfati i loro bisogno primari. Ma hanno anche il dovere di darsi da fare per contribuire in via primaria al soddisfacimento di tali bisogni.
La responsabilità della povertà di un Paese è ovviamente della sua classe dirigente. Peggio, tale classe dirigente, approfitta dell’ignoranza e della povertà della popolazione e accumula le ricchezze che provengono dagli aiuti umanitari. Non solo, ma per mantenere i privilegi della casta, diffonde corruzione, in modo da tappare la bocca a chiunque protesti; oppure agisce con repressione per la stessa finalità.

La strada è lunga perché un Paese si evolva, ma non c’è alternativa. Dimostrano questa voglia di crescita Paesi emergenti già avanti come il Marocco e la Tunisia.

 
Il Brasile, altro importante Paese emergente, è riuscito, con la saggia guida di Luiz Inacio Lula Da Silva, ad affrancarsi dal petrolio, rispondendo alle necessità energetiche con immense colture di barbabietola e canna da zucchero, con cui si produce l’alcol che serve ai motori e alla produzione di energia. L’Africa è il continente che ha più bisogno d’investimenti, la terza leva dello sviluppo. Senza logistica, trasporti, infrastrutture (strade, porti, aeroporti, binari, reti telematiche, ponti telefonici e via enumerando) ormai nessun Paese può fare un passo avanti. Per fare investimenti occorrono risorse finanziarie, però queste ci sono e in abbondanza. Hanno bisogno di essere impiegate in modo redditizio anche di lungo periodo, fino a 50 anni.

I consumi interni costituiscono un’altra leva dello sviluppo, ma se non c’è sufficiente ricchezza endogena, non si può alimentare il circolo che fa girare le industrie di prodotti e servizi. Ed ecco la quinta leva dello sviluppo: gli impianti con cui deve crescere una classe imprenditoriale. Anche per questa strada occorrono decenni, ma bisogna pur cominciare.
Dopo il 9 novembre 1989, giorno della caduta del muro di Berlino, la Germania Ovest, nell’inglobare la Germania Est, ha dovuto affrontare immensi problemi. Il più grave consisteva nell’assenza di una classe imprenditoriale. 62 anni di comunismo avevano tagliato la voglia di fare e di intraprendere.
Però, in 20 anni, la Germania dell’Est ha uno sviluppo molto vicino a quello dell’Ovest, cosa che non è avvenuta nel Mezzogiorno d’Italia, a distanza di 63 anni dal referendum (2 giugno 1946). “Datevi da fare” ha detto a voce alta e chiara Obama ai ghanesi, non aspettate solo i salvatori della patria. Come dire “Aiutati che Dio ti aiuta” (Benjamin Franklin, 1706-1790).
Saltando dai Paesi sottosviluppati al nostro Mezzogiorno sottosviluppato, sarà opportuno che anche noi ci diamo da fare, chiedendo al Governo regole certe di funzionamento ma anche equa ripartizione delle risorse, cancellando dal nostro vocabolario la parola “aiuti” e inserendo quella di “perequazione”. Non abbiamo bisogno di vantaggi ma di interventi di riequilibrio fra Sud e Nord.

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