“La stragrande maggioranza di noi è un pentito della diaspora: tutti i membri hanno esperienze all’estero, ma per vari casi della vita abbiamo sentito il richiamo della Sicilia. Non so se è la crisi che ci ha riportato qui: guardando i nostri curriculum si vede che non siamo scappati da un futuro di disoccupazione. Eravamo tutti abbastanza ben piazzati, ma ci sembrava giusto spendere le nostre competenze qui”.
“Il modello Hub è nato nel 2005 a Londra. Al momento ce ne sono 40 in tutto il mondo. Si tratta di un modello molto semplice che mette insieme spazi, persone ed idee in un contesto che nasce dall’esigenza di ‘risparmiare sulla bolletta’ e che inventa il co-working, cioè il lavoro collettivo all’interno di luoghi ben organizzati. Lo spazio viene organizzato per stimolare l’interazione e l’ispirazione. Al centro della community c’è la figura dell’host, il quale facilita il lavoro di gruppo senza parlare, ascoltando, e connettendo le differenze. La nostra comunità è molto eterogenea, fatta di professionisti che hanno in comune soltanto una cosa: il bisogno di fare in modo che il loro business abbia un impatto positivo sull’ecosistema. I nostri valori si basano essenzialmente su due principi, la sostenibilità ambientale e l’inclusione sociale”.
“L’Hub è un cocktail di incubatore d’impresa, club all’inglese (cioè uno spazio familiare nel quale mi trovo a mio agio) e centro sociale, in cui ciascuno collabora alla creazione dello spazio comune. Si tratta di una concezione nuova di centro d’aggregazione, in quanto serve per fare impresa. La consulenza è un pretesto per unire persone che siano in grado di apprendere in un approccio maieutico, dove ognuno riconosce nell’altro quel valore che lui stesso da un lato valorizza per se e dall’altro scambia con altri. In una logica di condivisione, il bilancio di competenze che entrano in un Hub è pari a zero, perché le competenze si fondono l’una con l’altra per produrre qualcosa di nuovo, rispetto alla quale il nostro imput è sempre minore”.
“Ne abbiamo tante, tra queste in stato molto avanzato c’è la startup ‘Iti’ (Itinerari turismo industriale): un progetto di riconversione del petrolchimico attraverso il turismo industriale. Ancora, cito un progetto che viene dalla nostra community e cioè ‘Riscatti’, un gruppo che utilizza materiale di scarto per realizzare arredi, con i quali abbiamo abbellito i nostri laboratori a Siracusa. La cosa interessante, e che ci contraddistingue rispetto agli altri incubatori, è la connessione con il nostro network internazionale, dal quale ci arrivano continuamente nuovi imput”.
“Assolutamente sì. Va anzitutto detto che abbiamo una massa critica che ci rende papabili per le Università, per esempio con il VII programma quadro europeo per la ricerca e l’impresa sociale. Siamo dei laboratori viventi con oltre 6 mila membri che lavorano costantemente su questi temi. In secondo luogo, siamo un Ente che può entrare in partenariato con il pubblico o il privato. Un esempio su tutti è quello del Progetto jeremie, uno strumento che mette a disposizione 13 milioni di euro (capofila è Banca etica) per l’impresa sociale. Noi siamo partner e forniremo uno sportello territoriale. Chi vuole creare un’impresa sociale viene da noi e gli offriamo consulenza a fronte di una membership. Quest’ultima comprende tutta l’assistenza tecnica necessaria per portare questa domanda a finanziamento”.
“Si. In un mese e mezzo abbiamo già raccolto una quindicina di adesioni. Il nostro guadagno dipende ovviamente dal tipo di membership: offriamo sia la possibilità di usufruire degli spazi comuni per un certo numero di ore, ma si può anche scegliere di avere le chiavi dei nostri locali pagando un mensile”.