Al Sud paralisi dell’economia industriale - QdS

Al Sud paralisi dell’economia industriale

Maria Francesca Fisichella

Al Sud paralisi dell’economia industriale

mercoledì 06 Novembre 2013

Il valore aggiunto del manifatturiero nel Mezzogiorno è sceso al 9,2%, un dato ben lontano dal target europeo del 20%. Rapporto Svimez: tra il 2007 e il 2012 ridotti del 24% i posti di lavoro e del 45% gli investimenti

PALERMO – Nel Rapporto Svimez 2013, recentemente presentato, è descritto un sistema produttivo, riguardante il Meridione, troppo frammentato e sbilanciato verso produzioni di beni tradizionali a basso valore aggiunto e poco propense all’innovazione, che ha pagato questa sua condizione soprattutto in termini di esportazioni, livelli di produttività, redditività.
Negli anni pre-crisi, nel 2007, il livello di valore aggiunto dell’industria meridionale era fermo ai valori del 2001, mentre dal 2001 al 2007 nelle aree arretrate della Germania e della Spagna è cresciuto rispettivamente del 40% e del 10%.
Per questo, secondo l’analisi del Rapporto, dal 2007 al 2012 il manifatturiero al Sud ha ridotto il proprio prodotto del 25%, i posti di lavoro del 24% e gli investimenti addirittura del 45%. Il valore aggiunto del manifatturiero sul totale al Sud è sceso dall’11,2% del 2007 al 9,2% del 2012, un dato ben lontano dal 18% del Centro-Nord e dal target europeo del 20%, auspicato dalla Commissione europea, come obiettivo da conseguire nel 2020 dai paesi dell’Unione.
È la competitività, ovvero la chiave di volta di una economia globalizzata, che registra un ritardo nel nostro Paese rispetto alle altre economie avanzate, le cui origini vanno rintracciate nella seconda metà degli anni ’90, ben prima della crisi.
Le cause dipendono da una pluralità di fattori, come si legge nel Rapporto: sono di natura strutturale, quali in particolare la ridotta dimensione media delle imprese, legate all’inefficienza dinamica del modello di specializzazione internazionale (ancora sbilanciato nella produzione di beni a basso valore aggiunto), alla modesta spesa in R&S; sia istituzionale, come l’inefficiente regolamentazione dei mercati e l’amministrazione e gestione dei servizi pubblici (istruzione e giustizia civile); sia, infine, di dotazione di risorse infrastrutturali e di capitale umano.
Da queste condizioni è scaturita la riduzione della base industriale del Mezzogiorno che è stata di una tale misura da rendere palpabile il rischio dell’innesco di processi di “desertificazione”, con la scomparsa di interi pezzi dell’apparato produttivo.
Il Sud, poi, risente di una maggiore fragilità strutturale delle proprie imprese. Anche sul versante tecnologia e innovazione – che insieme al grado di internazionalizzazione costituisce un “sintomo” della capacità di competere con successo sui mercati – registra un evidente ritardo dell’industria del Mezzogiorno. Dal Rapporto emerge che al Sud “la quota sul Pil della spesa per R&S è inferiore di circa il 30% rispetto alla media italiana, che non brilla certo nel panorama europeo, e il gap supera il 62% relativamente alla componente privata”.
Guardando, poi, alle esportazioni del solo settore manifatturiero, si evince come la quota del Mezzogiorno sul totale nazionale risulta, nel 2012, pari ad appena l’8,1%.
Un progetto di rilancio della manifattura italiana, “architrave del sistema economico” italiano, seconda in Europa solo a quella tedesca, dovrebbe partire secondo la Svimez anche dal Mezzogiorno, perché nelle regioni meridionali sono prodotti importanti beni intermedi necessari allo stesso apparato industriale del Nord; sono inoltre localizzati alcuni grandi impianti di proprietà di gruppi settentrionali ed esteri, che costituiscono sezioni territoriali, ma rilevanti a livello nazionale e per i quali il continuo ammodernamento tecnologico è d’obbligo.

Italia maglia nera in Europa per l’interventismo pubblico

PALERMO – Visto lo stato dell’arte, ossia il fatto che nel Meridione sono presenti pezzi strategici del settore industriale del Paese “preoccupano”, dunque, le ipotesi ricorrenti di uno smobilizzo dell’azionariato pubblico, soprattutto per quelle aziende che continuano ad assolvere funzioni strategiche per l’intero Paese e per la salvaguardia di specifici assetti produttivi, soprattutto in molte aree meridionali. E preoccupa altresì la sequenza delle numerose cessioni di aziende di rilievo, dovuta sostanzialmente alla nostra crescente debolezza finanziaria. Una prospettiva che oggi investe massicciamente il “meglio” della nostra manifattura e che non è escluso possa investire a breve il complesso – arcignamente vigilato – del sistema bancario nazionale. Spetta, dunque all’Italia la “maglia nera” per le politiche industriali, perché “in Italia si rileva un progressivo e netto indebolimento dell’intervento pubblico a favore dell’industria: tra il 2006 e il 2011 l’importo degli aiuti di Stato alle imprese è stato più che dimezzato, sia in valore assoluto, sia in rapporto al Pil, portando il Paese su posizioni marginali rispetto agli altri Paesi europei. A livello territoriale, il taglio delle agevolazioni è stato estremamente asimmetrico, colpendo maggiormente le imprese localizzate nel Sud.

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