Com’è faticoso fare il capo - QdS

Com’è faticoso fare il capo

Carlo Alberto Tregua

Com’è faticoso fare il capo

venerdì 08 Novembre 2013
Capo non si nasce, si diventa. Ci diventa chi è intransigente con sé stesso prima che con gli altri. Ci diventa chi capisce che è essenziale dare l’esempio. Il suo comportamento è un modello che non ha bisogno di parole. Le parole servono a poco, per dare autorevolezza a chi deve esercitare una funzione di guida. La posizione di comando di una qualunque struttura va intesa come dovere e mai come potere. Il dovere comporta sacrifici e  rinunce.
Vi sono Regole etiche alle quali il capo si deve conformare sempre. Valutando i propri collaboratori con equità, in base alle competenze che hanno, alla loro buona volontà ed alla capacità di affinare continuamente i propri comportamenti per conseguire risultati.
Sono proprio i risultati, non solo in campo economico e imprenditoriale, ma anche in quello sociale e assistenziale, a qualificare le azioni.
Molta gente ama dare fiato alla bocca, autoincensarsi e sopravvalutarsi. Chi fa così non è un capo .

Il capo deve essere irreprensibile, non deve esigere fedeltà dai propri collaboratori, bensì lealtà. Chi vuole fedeltà si prende un cane, si usa dire (male). Infatti, il cane non è fedele al proprio padrone, ma a chi gli da il cibo.
Lealtà vuol dire che il collaboratore deve sempre comunicare quello che pensa senza alcun timore reverenziale, a condizione che esprima proposte costruttive rispetto ai problemi; e a condizione che non muova critiche fine a sé stesse. Insomma, che non dia fiato alla bocca. Blablatori ce ne sono tanti in giro, troppi. Se non gli si può mettere la museruola, quantomeno bisogna non sentirli.
La fatica del capo deriva dalla necessità di modellare una organizzazione della propria attività che sia efficiente. Deve, inoltre, motivare ed entusiasmare la propria squadra senza perdere mai di vista l’obiettivo dell’azione: fare goal. Chi cincischia,  non può fare parte di una squadra efficiente.
Il capo non deve incutere timore ma rispetto, non deve essere amico dei propri collaboratori, distinguendo con precisione il versante professionale rispetto a quello personale. Ciò non vuol dire che non vi possa essere, accanto al rapporto professionale, anche quello personale.

 
I collaboratori vanno sempre motivati, incoraggiati, aiutati a crescere. Naturalmente quelli che hanno la volontà di usare olio di gomito, come si usava dire in passato. Il capo deve abituare i propri collaboratori  a misurare le azioni sulla base dell’unico criterio obiettivo, che è quello del merito.
Deve esigere concretezza con la quale si tagliano i tempi morti, quelli inutili ed anche quelli utili ma non indispensabili. Per potere indirizzare bene una squadra, che può essere di dieci, cento, mille o più persone, il capo autorevole deve essere più competente, più preparato, deve lavorare di più degli altri ed entrare nel merito delle singole questioni con grande profondità.
Il capo riceve il suo panetto, come chiamano gli attori l’applauso, se nel tempo ritrova i propri collaboratori che hanno cambiato casacca, i quali ricordano la formazione ricevuta, anche dura e piena di sacrifici. Quella è la migliore gratificazione di chi ha formato schiere di persone.

Merito e risultati misurano la capacità del capo e della sua squadra. Vi è un altro elemento da aggiungere: la responsabilità. Sapere, cioè, che si deve dar conto prima di tutto alla propria coscienza e poi ai terzi.
Non è possibile pensare che vi sia tempo da perdere perché nella vita di una persona esso è brevissimo, come diceva Ennio Flaiano la vita è un lampo fra due periodi bui. Ogni minuto va utilizzato bene, non sempre per lavorare ma anche per pensare, per divagarsi e per l’ozio creativo.
Il capo non stacca mai la spina del cervello. è in attività acca 24, sette giorni su sette, ma egli sa organizzarsi per alternare fasi intense ad altre più lente o, anche, fermandosi, quando serve, per ricaricarsi.
Non importa che un giorno si muoia; se durante la propria vita si è lasciata traccia negli altri di ciò che si è fatto, la loro memoria manterrà in vita chi è passato nel mondo dello spirito. Sì, perché, a mio avviso, il mondo dello spirito esiste, è fatto di energia. Quell’energia presente in tutti noi.

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