Pari opportunità sconosciute nello sport - QdS

Pari opportunità sconosciute nello sport

Chiara Borzi

Pari opportunità sconosciute nello sport

giovedì 05 Dicembre 2013

La Figc non prevede un categoria professionistica per le calciatrici, equiparate ai dilettanti e al settore del calcio a cinque. Discipline diffuse tra le atlete come la pallavolo e la pallacanestro fanno distinzioni rispetto agli uomini

PALERMO – La lotta per le pari opportunità delle donne nello sport è un percorso lungo e che ad oggi riserva ancora molti ostacoli. Tanti gli appelli contemporanei lanciati anche dalle istituzioni per invocare una parità di trattamento nell’ambito sportivo tra uomo e donna, ma quel che sembra evidente è che essi siano caduti nel vuoto pur di fronte un sistema sportivo che rimane ancora evidentemente a misura di uomo.
I problemi esistenti non riguardano solo i casi delle cosiddette “quote rosa” nello sport (assenza o parziale assenza di dirigenti donna o presidenti donna), ma concernono la presenza stessa in società e nei suoi sistemi di discriminanti di tipo contrattuale, economico e di tutela nelle varie tappe della vita delle atlete donne. I problemi che tendono quasi ad essere nascosti, ma che di diritto dovrebbero rientrare tra le prime tematiche relative alle pari opportunità, riguardano per l’appunto la differenze contrattuali attualmente sfavorevole alle donne che fanno dello sport la propria attività lavorativa primaria. Manca ogni forma di garanzia.
In Italia vi è un’unica legge che regola il professionismo sportivo, è la legge n° 91 del 23 marzo del 1981. Sino ad oggi non ha subito alcuna modifica, nonostante sia stata analizzata e messa in discussione in più occasioni da parte dei competenti di sport e di diritto sportivo.
La legge 81/91 è divisa in quattro capi e stabilisce, tra gli altri elementi, chi possa essere definito professionista sportivo. Nel suo art 2 la 81/91 recita infatti: “Sono sportivi professionisti, gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal Coni e che conseguono la qualificazione delle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse. Con l’osservanza delle direttive stabilite dal Coni per la distinzione dell’attività dilettantistica dalla professionistica”.
La legge indica espressamente quali sono dunque le figure che possono essere considerate professionistiche, queste sono definite senza alcuna distinzione di sesso, ma è proprio l’ultima parte di questo articolo 2, dove si delega al Coni e le Federazioni la distinzione dell’attività dilettantistica dalla professionistica, che si determina dal 1981 un elemento discriminante che ha penalizzato in modo totale solo le donne.
Da 33 anni a questa parte si è infatti atteso che queste direttive Coni chiariscano la distinzione dell’attività professionistica da quella dilettantistica; da altrettanto tempo assistiamo ad un caso in cui le Federazioni si sono solo limitate a dichiarare quale sia l’area del professionismo da quella del dilettantismo, senza fissare un criterio distintivo che non sia solo di tipo formale.
La ratio di questa non scelta è quella di non voler troppo allargare il bacino del professionismo, il più delle volte per motivazioni economiche (e sarebbe corretto), ma rimane ingiustificata l’assenza delle donne dal professionismo.
Ad oggi uno sport come la pallavolo, e con esso tutto il suo carico di campionesse donne, è privo di un settore professionistico. Nel calcio la discriminazione è invece evidente: la Figc ha distinto nel suo regolamento le serie professionistiche dalle dilettantistiche, ma ha escluso dalle prime i dilettanti, il settore del calcio a 5 e esplicitamente le donne.
Nella pallacanestro la Fip ha posto anch’essa dei paletti attraverso l’articolo 4-bis comma 1 in cui definisce professionisti solo i giocatori uomini partecipanti ai campionati nazionali maschili definiti professionisti (Lega A e l’ex Lagadue) ed esclude le donne anche se tesserate nei campionati nazionali.
La prima conseguenza dell’assenza del riconoscimento del professionismo sportivo nelle donne è la mancanza di un contratto di lavoro. In vista di una regolare contrattualizzazione le prestazioni fornite dalle sportive “professionisti di fatto” non possono essere considerate neppure lavoratrici di tipo subordinato o autonome.
Per i “professionisti di fatto” esistono oggi dei moduli che regolano ad hoc l’erogazione del denaro e stabiliscono punti su cui rendere effettivo il legame tra società e giocatore, ma sono tutti elementi di contrattualizzazione secondaria che escludono forme di tutela completa, come quella invece riservata ai professionisti.
 

 
Ester Vitale, Uil Sicilia: “Il 70% delle atlete  non è indipendente economicamente”
 
Le disparità di fatto tra uomini e donne nello sport creano un serie di conseguenze da non sottovalutare, come ha recentemente evidenziato Ester Vitale, membro del sindacato Uil Sicilia e relatrice al convegno sulle pari opportunità delle donne nello sport realizzato alla Kore di Enna. Le atlete donne, infatti, non percepiscono né Tfr, né indennizzi per i casi di maternità, e sono escluse dalla maggior parte delle forme di tutela presenti nel mondo del lavoro.
“In assenza di un contratto ed in presenza di questa condizione che spesso raggiunge la stregua di un lavoro in nero – ha detto Vitale – il 70% delle donne che vivono di sport non raggiungono l’indipendenza economica, altrettante sono costrette a chiedere a lungo un sostegno alla famiglia. Questo scenario deve essere letto considerando come precondizione un gap del 17% nello stipendio percepito da una donna ‘professionista’ rispetto ad un uomo che pratica sport agli stessi livelli”.
 

 
Parla Manuela Di Centa: “Non c’è una legislazione”
 
Durante il periodo di permanenza alla Camera dei Deputati, Manuela Di Centa, indimenticata atleta azzura plurimedagliata ai XVII Giochi Olimpici invernali del 1994 nella disciplina dello sci di fondo e prima donna italiana eletta membro del Comitato Internazionale Olimpico, si è fatta promotrice di una legge che sancisse la tutela delle donne/atlete in caso di maternità.
Passata alla Camera, la legge si è arenata al Senato, ma Manuela Di Centa, grazie al ruolo di membro della Commissione Coni istituita per monitorare la legge 81/91, è rimasta riferimento per la battaglia che continua a favore del raggiungimento delle pari opportunità delle donne nello sport. Queste le sue parole rilasciate in esclusiva al QdS: “Secondo la mia esperienza relativa alla legge 91 dell’81 – ha dichiarato la campionessa – ritengo ci sia un grande nodo da dover risolvere. Un nodo cruciale che coinvolge tantissime ragazze, donne, atlete che non hanno riconosciuta assistenza e tutela sociale. Durante gli anni trascorsi in Parlamento mi sono battuta per ottenere tutela a favore delle donne sotto il profilo della maternità.  Non c’è legislazione, è lasciato tutto allo stato brado”.
“La condizione esistente – ha continuato la Di Centa – fotografa grandi campionesse che ricevono tutela perché appartenenti ad un corpo militare, quindi sono riconosciute come lavoratrici dello Stato, ma nessun riconoscimento è dato alle atlete che non hanno un posto da militare. Non si pone attenzione alla dimensione mamma-atleta, bisogna riconoscere la maternità e far sì che attraverso un processo di solidarietà tra lavoratori, si possa garantire questa tutela”.
“Recentemente – ha raccontato al QdS l’ex deputata – è stato molto positivo l’incontro tra il Coni e il presidente del Consiglio Enrico Letta, che ha visto così il Governo intervenire con il progetto ‘Destinazione Sport’. Tra le tante azioni è prevista quella di rivedere la legge 91. Una tavolo specifico esprime il desiderio di puntare alla crescita attraverso una rivalutazione della socialità e una riequilibratura degli aspetti economici legati allo sport. Questo intervento del Governo rappresenta per la prima volta un segnale non proveniente da un singolo onorevole che fa una fatica esagerata per battersi a favore di una legge, ma una mossa da chi è a capo delle istituzioni”.
 

 
Giovanni Caramazza: “Sicilia più indietro rispetto alle altre regioni d’Italia”
 
Quali sono gli scenari futuri vista l’attuale assenza di pari opportunità? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Caramazza presidente del Coni Sicilia.
Presidente Caramazza, in tema di pari opportunità si discute molto di “quote rosa”. Come si colloca la Sicilia?
“Siamo una regione che rimane indietro rispetto al resto d’Italia o comunque del Cio. All’interno del Cio ci sono percentuali di dirigenza sportiva femminile nettamente più alte. Come Coni siciliano stiamo cercando di inserire in tutte le commissioni esistenti dirigenti donne. Abbiamo voluto costituire la Consulta femminile, primo esempio in Italia, perché riconosciamo la necessità di fare valere le pari opportunità delle donne nello sport. Mi auguro che questo principio possa valere nel tempo, quando i dirigenti dovranno candidarsi alla presidenza delle federazioni. Ho confermato i sei delegati provinciali, ma su tre di loro due  sarebbero dovute essere donne. Una delle due non ha voluto accettare: essendo molto legata al presidente uscente, e per una massima correttezza che si riscontra solo in una donna, ha rifiutato la proposta. Quindi è giunta la nomina di Aldo Violato.  Fra quattro anni spero di avere un buon numero di donne presidente sul numero totale delle province siciliane”.
Oltre le “quote rosa” esiste un problema più grande: l’impossibilità di considerare professioniste le donne che fanno dello sport un lavoro. Perché questo ritardo?
“È una conseguenza di un maschilismo imperante che ha caratterizzato la politica e il mondo sportivo ancor di più. In società assistiamo già a delle aperture, ma il mondo sportivo rimane chiuso. Solo sei discipline hanno reso chiaro chi può essere considerato professionista sportivo e le donne sono chiaramente escluse”.
Per modificare questo status quo serve un’azione del Coni Sicilia o del Comitato centrale?
“Le modifiche vanno fatte a livello nazionale. Presto il presidente Malagò verrà in Sicilia, la Consulta femminile presenterà il suo libro e coglierà l’occasione per chiedere dei provvedimenti”.
Come può muoversi la sua presidenza per offrire maggiori certezze a quelle che vengono definite ad oggi solo delle “professioniste di fatto”?
“Non ho potere decisionale, ma aver costituito la Consulta è stata un scelta significativa. Intendiamo intervenire parlando con i vertici Coni e quelli politici, per cercare di favorire le pari opportunità. Sono troppe le donne professioniste che ufficialmente non lo sono. La pallavolo è ormai uno sport che ha il 60% di tesserate donne, professioniste che lo sport impegna completamente, ma non tutela come avviene per un atleta uomo fornito di contratto che ha valore”.

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