Stesse opportunità, vinca il meritevole - QdS

Stesse opportunità, vinca il meritevole

Carlo Alberto Tregua

Stesse opportunità, vinca il meritevole

giovedì 09 Aprile 2009

L’art. 1 della Costituzione ricorda che la Repubblica italiana è fondata sul lavoro (degli altri) e che ogni cittadino ha diritto al lavoro. Il senso è che per liberarsi dai bisogni e per potersi comportare da autonomo, ogni membro della Comunità non deve avere bisogni e i bisogni diminuiscono quando si lavora e si è economicamente autosufficienti.
In sessant’anni, tale articolo è stato travisato, perché i sindacati hanno spiegato che non c’era più diritto al lavoro, ma ad un posto di lavoro o, meglio ancora, a uno stipendio, indipendentemente da cosa si facesse. Il travisamento del sindacato conservatore ha fatto illudere tanta gente che per il fatto stesso di esistere o di possedere un titolo di studio (diploma o laurea) del tutto inutile a dimostrare competenza e professionalità, il diritto prima indicato fosse maturato. Una distorsione del concetto, che ha creato tante illusioni e soprattutto ha messo in secondo piano il valore più alto, quello del merito.

La Costituzione si è preoccupata di stabilire un principio di eguaglianza fra i cittadini (art. 3) e in ciascuno degli articoli ha fatto sempre trasparire il dovere prima del diritto; ma del dovere nessuno mai parla, mentre è indispensabile ricordarlo avanti ogni altra pretesa. In una comunità democratica, come quella italiana, checché ne possano dire tanti parrucconi, si rispetta il diritto di eguaglianza e il diritto al lavoro quando si offrono le stesse opportunità a tutti i cittadini. Naturalmente, le opportunità di lavoro comportano l’accertamento di capacità, competenze e professionalità, per potere esercitare quel lavoro, in modo tale da essere produttori di un bene o di un servizio.
Quindi, i requisiti principali per chi cerca un lavoro sono capacità, competenza e professionalità. Il ceto politico, che ha la responsabilità di guidare il Paese, in questi sessant’anni non ha diffuso ed alimentato il valore del merito, basato sui requisiti prima indicati. Anzi, ha diffuso la cultura del favore.

La cultura del favore anziché la cultura del merito. Il ceto politico meridionale si è approfittato del bisogno della gente, perché nel Sud obiettivamente l’economia è arretrata. Lo dimostra il reddito pro capite che è mediamente inferiore di un terzo rispetto a quello della media nazionale.
La cultura del favore ha prodotto l’enorme massa di precari, un fenomeno esistente sostanzialmente da Roma in giù: i precari della pubblica amministrazione che aspettano il posto fisso, ovvero lo stipendio fisso, senza preoccuparsi di acquisire e aumentare le proprie competenze. Ribadiamo per l’ennesima volta la verità: i precari sono stati dei privilegiati, perché chiamati a uno a uno da uomini politici cattivi che avevano il sottostante pensiero di trasformarli in altrettanti galoppini.
Il bisogno di tanta gente è comprensibile, ma poi i cittadini si sono abituati all’idea che qualcuno dovesse pensare a loro, strisciando e umiliandosi nelle segreterie politiche.

Stesse opportunità per tutti, questo dice la Costituzione. E poi vinca il più meritevole. Non solo per i requisiti professionali, ma anche per la voglia di sacrificarsi, di rinunziare a festini vari, di studiare la domenica, di fare ferie corte. Il tutto con il preciso scopo di migliorare, sia dal punto di vista professionale che dal punto di vista umano.
Guardatevi intorno e accertate quanta gente ancora studia, sia nel corso di scuola o Università e dopo l’Università. Chi legge almeno 30 libri l’anno? E chi almeno due quotidiani, due settimanali e due mensili? Insomma, chi ha voglia di apprendere, rubando ore al sonno e al divertimento?
Non certo la maggioranza dei cittadini. Ma quella minoranza che poi nel tempo diventa classe dirigente, senza dover ringraziare nessuno per le proprie capacità. Senza doversi umiliare come fanno tanti per chiedere qualcosa che potrebbero ottenere autonomamente, ma che la loro ignavia li porta a rinunziare strisciando a chiedere questo o quel favore. Un comportamento che lede la dignità dell’uomo, il quale deve ricordarsi che, essendo stato creato a immagine e somiglianza di Dio, deve mantenere alto il capo e fiero lo sguardo.

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