Sicilia, terza regione d’Italia per lavoro nero al femminile - QdS

Sicilia, terza regione d’Italia per lavoro nero al femminile

Michele Giuliano

Sicilia, terza regione d’Italia per lavoro nero al femminile

giovedì 02 Luglio 2015

Report Flai Cgil: sono ben 7.700 le donne che lavorano in agricoltura, ma sconosciute al fisco. Le braccianti italiane, rispetto alle straniere (2.700), si mostrano più remissive

PALERMO – Nella Sicilia del lavoro sommerso adesso c’è spazio per le donne. Anzi, proprio le donne pian piano sembra stiano scalzando gli uomini.
Molto più che una preoccupazione questa, è diventata una certezza: l’Isola è la terza regione d’Italia con il maggior numero di donne che lavorano in nero, cioè impiegate in aziende completamente in nero. Senza i contributi, una paga decente, le ferie e i festivi pagati, o anche la maternità, niente di tutto questo.
La Flai Cgil ha pubblicato un report statistico in cui per l’appunto si mette in risalto il fenomeno del caporalato il quale però ha assunto negli ultimi due anni un altro aspetto: ha spostato la sua attenzione per l’appunto al mondo in rosa, quasi a far capire che i tempi anche nel mondo illegale sono cambiati e non c’è più distinzione di sesso.
Secondo la Flai sarebbero in 7.700 le donne impiegate in Sicilia in agricoltura e che risultano completamente sconosciute al fisco: 5 mila sono “indigene”, altre 2.700 sono straniere.
Ma perché l’attenzione degli speculatori in agricoltura si sarebbe spostata sulle donne? Perché, rispetto agli uomini, le donne si mostrano più docili e concilianti, quindi più facilmente ricattabili.
Un produttore, intervistato proprio dal sindacato, spiega di preferire la donna agli uomini perché “si presta di più a un lavoro piegato di tante ore. Io ho quasi tutte italiane” .
Un altro dato singolare emerso dall’indagine, è che ad essere scelte dai cosiddetti caporali che nelle prime ore del mattino intercettano manodopera da impiegare illegalmente nelle aziende, sono soprattutto donne italiane.
La ragione è presto detta, sembra che le straniere dopo anni di soprusi e prepotenze si siano ribellate al caporalato e abbiano iniziato a protestare e denunciare, mentre le connazionali risultano, almeno ad oggi, più remissive e affidabili.
Ad essere interessate dall’inedito fenomeno di caporalato al femminile sono, soprattutto, le tre regioni italiane in cui è più forte la vocazione all’agricoltura come la Puglia, la Campania e la Sicilia.
Nei punti di raccolta, agli angoli delle piazze, alle stazioni di benzina, aspettano il caporale che viene a prenderle con l’autobus gran turismo per portarle sui campi, dove lavorano sfruttate e ricattate, a volte anche con la richiesta di prestazioni sessuali.
Come spiega una vittima del caporalato che ha scelto di rimanere anonima, il meccanismo del reclutamento è il seguente: “Nei paesi ci sono delle persone, generalmente sono delle donne, che fanno da tramite tra chi vuole lavorare e il caporale. Raccolgono i nominativi per lui. Il caporale decide dove mandare a lavorare le braccianti e quello che deve essere dato come salario. Cercano di non avere uomini, anche per i lavori pesanti, perché le donne si possono assoggettare più facilmente” .
Una figura davvero peculiare è quella della fattora, persona di fiducia del caporale: “Il suo ruolo – secondo la Flai – è di subordinare psicologicamente le braccianti, garantendo loro assunzioni se rinunciano ai diritti”.
 


Per sette-dieci ore di lavoro nei campi la paga è 27-30 euro
 
La percentuale che il caporale prende dall’azienda è di circa 10-12 euro per lavoratore, se ne deduce che si viaggia su grossi margini di guadagno. Secondo una stima del sindacato Flai Cgil le braccianti vittime di caporali italiani percepiscono paghe che variano a seconda del tipo di raccolta, ma che comunque non superano le 27-30 euro per giornate di lavoro di 7-10 ore nei campi o in serra. Nei magazzini di confezionamento della frutta arrivano anche a 15 ore. L’estorsione, dunque, è la regola. Infatti, il salario ufficiale è di 50-60 euro, ma in realtà le lavoratrici sono costrette a firmare buste paga false che solo formalmente rispettano quanto previsto dai contratti nazionali di lavoro (per le aziende è importante dimostrarne la regolarità per poter accedere ai finanziamenti pubblici), nei fatti, percepiscono un terzo o al massimo la metà del salario dovuto, dovendo restituire al datore di lavoro la parte eccedente. Insieme alla busta paga, la lavoratrice riceve dal datore di lavoro un assegno che la stessa dovrà consegnare al caporale come compenso per la sua attività di intermediazione. Chiaramente rigorosamente in nero.

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