Essere madre e lavorare, al Sud disparità doppie - QdS

Essere madre e lavorare, al Sud disparità doppie

Antonio Leo

Essere madre e lavorare, al Sud disparità doppie

giovedì 05 Maggio 2016

Una madre su tre ricorre al part-time e l’8,7% è stata licenziata in gravidanza. Indice di Save the children boccia le regioni del Mezzogiorno

PALERMO – Disparità nelle disparità. Potrebbe sintetizzarsi così la condizione delle madri che vivono nel Mezzogiorno. Perché sono loro, le mamme di Palermo, Napoli, Bari, Reggio Calabria e via discorrendo a pagare il prezzo più alto di tutte, in termini di occupazione, salario, carriera. È quanto emerge da un approfondito report di Save the children, che non a caso chiama le donne con figli al seguito “equilibriste” e non a caso pubblica il rapporto a pochi giorni dalla Festa della mamma.
 
C’è poco da festeggiare, pensando per esempio che l’Italia nel 2015 si è posizionata al 111° posto su 145 paesi per accesso delle donne al mercato del lavoro.
Ma dicevamo, appunto, disparità nella disparità. Save the children Italia ha stilato un indice regionale delle madri italiane, ricalcando il “Mother index” curato dall’Organizzazione internazionale a cui fa riferimento. L’indice analizza tre aspetti: quanto tempo dedicano le donne alla cura dei figli, soprattutto rispetto ai mariti/compagni; quanto e in che misura è presente il lavoro nella vita delle mamme; quali sono i servizi che offrono le regioni (asili nido, mense scolastiche, servizi per l’infanzia ecc.).
 
La classifica che n’è uscita (in alto a destra) sembra suddividere plasticamente le regioni tra quelle di “serie A” e quelle di “serie B”. Inutile dire che sotto la linea Gotica stanno tutte messe malissimo. La regione più “mother friendly” è il Trentino Alto Adige, seguita sul podio da Valle D’Aosta ed Emilia Romagna. Gli ultimi tre posti, partendo dal fondo, sono occupati da Calabria, Campania e Sicilia. Uno squilibrio territoriale che si osserva in tutte le dimensioni della vita di una madre analizzate dall’indice (cura, lavoro, servizi per l’infanzia).
 
Osservando solo l’aspetto della cura familiare, troviamo al primo posto l’Emilia Romagna e all’ultimo la Calabria (Sicilia 14°), mentre rispetto alle condizioni lavorative è ancora una volta il Trentino Alto Adige a rivelarsi luogo “ideale” per le donne con prole al seguito (Campania ultima, ma tallonata a breve distanza dalla nostra Isola). Peggio di tutti per l’accesso ai servizi dell’infanzia fa la Basilicata, con la Sicilia ancora penultima, a un passo (l primo posto troviamo la Valle D’Aosta).
 
Un dato quest’ultimo prevedibile, se si pensa che per esempio nell’Isola l’accesso all’asilo nido è garantito solo al 5% dei bambini(uno su venti) contro il 26,5% dell’Emilia Romagna (dati Svimez 2015). E che il 29,7% delle lavoratrici con un figlio tra zero e tre anni desidererebbe portarlo all’asilo e non può o perché la retta è troppo cara (per il 50,2% delle mamme) o perché mancano i posti (per l’11,8%). A Catania, la retta nell’anno scolastico 2014/2015 – secondo l’elaborazione dell’Osservatorio di Cittadinanzattiva – ammontava a poco meno di 300 euro al mese.  E così, in più di un caso su due,  i figli vengono affidati ai nonni, ma non sempre è possibile a causa dell’avanzare dell’età delle madri e del prolungamento dell’età lavorativa dei nonni stessi.
I maggiori squilibri riguardano quelle donne che devono conciliare la cura dei pargoli con la carriera professionale. Sul filo sospeso ci sono circa 8 milioni di mamme tra i 25 e i 64 anni (sempre più avanti nell’età, considerando che in media si arriva al primo parto a 31 anni e mezzo) con figli under 15 o under 25. Circa la metà di esse è tagliata fuori dal mercato del lavoro, ma la percentuale aumenta in proporzione al numero dei figli. Tra i 25 e i 49 anni il tasso di occupazione materna con un figlio è pari al 58,6%, ma si ferma a 54,2% se i figli sono 2 e non supera il 40,7% con 3 o più figli. Cambiano drasticamente le percentuali per i padri, ancora indiscussi breadwinners in Italia, che trovano lavoro rispettivamente nell’81,7%, nell’86,2% e nell’81,6% dei casi.
Le difficoltà a conciliare lavoro e famiglia si traducono spesso nella trasformazione dei contratti delle donne madri in part-time (circa una mamma su tre con un figlio ne ha fatto ricorso, Eurostat 2014) o addirittura nell’abbandono del proprio posto di lavoro. Talvolta anche contro la loro volontà: nel 2011 l’8,7% delle madri che lavorano o hanno lavorato hanno dichiarato all’Istat “che nel corso della loro vita lavorativa sono state licenziate o in condizione di doversi dimettere in occasione di una gravidanza”.
Il problema resta la cultura maschilista radicata nel nostro Paese, specie al Sud: la distribuzione del lavoro familiare continua a essere sbilanciato a danno delle donne, che dedicano alle faccende di casa circa 5 ore e 9 minuti al giorno contro le 2 ore e 22 minuti degli uomini. In Norvegia, l’impegno femminile in famiglia scende a 3 ore e 31 minuti. Va detto, però, che i tempi stanno cambiando anche in Italia. Tra otto e nove padri su dieci dichiarano di partecipare alla cura dei piccoli, dando loro da mangiare, raccontando fiabe, accompagnandoli a fare sport o lezioni d’inglese.

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