Olio, in Sicilia poche le aziende che lo trasformano - QdS

Olio, in Sicilia poche le aziende che lo trasformano

Michele Giuliano

Olio, in Sicilia poche le aziende che lo trasformano

mercoledì 10 Agosto 2016

Secondo l’Istat, la nostra Isola è seconda solo alla Puglia per superficie terriera destinata alla coltivazione dell’ulivo. In Sicilia i produttori sono 1.200, eppure soltanto in 6 lavorano il prodotto per immetterlo sul mercato

PALERMO – La coltivazione degli olivi e la produzione di olio sono ormai da secoli per la Sicilia tradizione e storia. Un paesaggio ricoperto di alberi centenari, che si estende per chilometri, un’immagine romantica e nostalgica di un mondo agricolo che sa di Mediterraneo, di sole e di abbandono alla natura e ai suoi tempi, esportata in tutto il mondo insieme al sapore del nostro ottimo olio.
Considerazioni bucoliche a parte, che possono avere un valore non indifferente soprattutto dal punto di vista del turismo eno-gastronomico, quello della coltivazione degli ulivi e produzione dell’olio è un settore produttivo che ha sempre dato molto all’economia siciliana, e che potrebbe dare ancora di più se si riuscisse a migliorare la filiera produttiva e a variegare al meglio l’uso del derivato base.
I dati forniti dall’Istat purtroppo parlano chiaro: la Sicilia registra la presenza di un buon numero di produttori, quasi 1.200 in tutto, una buona superficie terriera utilizzata per la coltivazione dell’ulivo, seconda in Italia soltanto alla Puglia, regione anch’essa di grandissima tradizione nella produzione di olio, eppure soltanto 6 sono i produttori che si occupano in proprio anche della trasformazione. Un’occasione persa, da parte dei numerosi agricoltori che si occupano della fase iniziale di coltivazione e raccolta delle olive, di andare oltre e di accorciare la filiera, guadagnado quindi di più. Con un rapporto percentuale dello 0,51 per cento tra semplici produttori e produttori che sono anche trasformatori, la Sicilia scende vertiginosamente nella classifica e si piazza al penultimo posto tra le regioni italiane, seconda soltanto all’Umbria, fanalino di coda con lo 0,24 per cento.
Un dato che fa riflettere se lo confrontiamo, ad esempio, a quello del Friuli-Venezia Giulia, che ha pochissime aziende e poco terreno dedicato, evidentemente nuova a questa forma di produzione, eppure quasi il 60 per cento di queste attività si dedicano sia alla produzione che alla trasformazione, con una visione più moderna dell’agricoltura che non è soltanto portare a casa frutta e verdura, ma soprattutto pensare al mercato e preparare il prodotto all’inserimento diretto nello stesso, in modo da trarre il maggior profitto possibile dal lavoro faticoso di un intero anno.
Con valori molto alti si impongono anche le Marche (26 per cento), la Lombardia (20 per cento), la Calabria (16,5 per cento) e il Lazio (11,5 per cento). Per assurdo, rimangono più in basso regioni nelle quali gli ulivi sono parte integrante della tradizione e il cui olio è conosciuto in tutto il mondo, come la Toscana, con un valore che si attesta comunque sul 5 per cento, e la Puglia, con uno scarso 2 per cento. Se rivediamo i dati considerando la classica distinzione Nord, Centro e Mezzogiorno, notiamo una certa omogeneità tra le prime due, con circa il 5 per cento ognuna, valore che scende a picco a Sud, dove la percentuale si attesta sull’1,7 per cento. Dati inequivocabili che pongono la Sicilia con i suoi eterni problemi legati soprattutto all’arretratezza culturale del modello imprenditoriale.
 

 
Costi abbattuti e filiera più corta. Se si lasciasse spazio all’innovazione
 
PALERMO – Questi valori evidentemente vanno interpretati come la mancanza di evoluzione di un settore che è stato e continua ad essere gestito in termini di tradizione e non di innovazione, in cui si è radicato un sistema di lavorazione delle olive attraverso una serie di “passaggi di mano” per la lavorazione. Tutto questo però ha dei problemi consequenziali: il fatto di non dedicarsi alla trasformazione finisce con il lasciare l’imprenditore spesso con una materia prima e di doversi poi affidare alle piccole o grandi industrie che purtroppo possono fare il bello e il cattivo tempo. Non solo, sul mercato poi questo passaggio da produttore a trasformatore finisce per appesantire i costi finali del prodotto stesso. Alla fine quindi il rischio è che siano tutti infelici e scontenti: da un lato perchè il consumatore si vede un prodotto più costoso perchè c’è un ulteriore passaggio in filiera, dall’altro poi resta anche poco in termini economici agli agricoltori. Quante volte il contadino si è lamentato di non avere un’adeguata remunerazione? Risale infatti di parecchio il numero dei semplici trasformatori, 121 in tutta l’Isola, che utilizzano per la lavorazione 177 impianti, numeri che superano la media nazionale.

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