Occorre essere appassionati del proprio lavoro, volergli bene come a un figlio, sacrificarsi e spandere sudore perché, attraverso esso, si conquista una libertà psicologica e materiale.
Quanta pena fanno quelli che vanno a lavorare come cani bastonati. E quanta comprensione meritano altri che si alzano alle 5 della mattina per prendere il treno dei pendolari e arrivare alle 8 sul posto di lavoro. E tanti altri, fra cui numerosi dipendenti pubblici, che lavorano anche di notte nelle stazioni, negli ospedali, negli aeroporti, facendo lavori usuranti. Ma anche bravi lavoratori che fanno turni festivi e notturni nelle fabbriche.
Non si capisce perché, di fronte a tanti italiani, anche provenienti da altri Paesi ma che ormai si sono naturalizzati a tutti gli effetti, vi debbano essere categorie di lavoratori privilegiati che vanno sul posto di lavoro per passare il tempo.
Lavorare di per sé non serve a nulla, se non a portare a casa uno stipendio. Occorre, invece, lavorare per un obiettivo e poi verificare puntualmente che esso si sia realizzato, paragonandolo al risultato.
La questione è così ridotta all’osso: pagare le persone che lavorano per i risultati che conseguono e non per le ore passate sul luogo, che molti considerano un inferno.
La maggiori disfunzioni sono nella Pubblica amministrazione, per il semplice motivo che non c’è un vero datore di lavoro che assegni obiettivi e ne controlli il raggiungimento. Cosicché ci troviamo una pletora di 4,2 milioni di persone, comprese quelle delle partecipate, delle quali una metà fa finta di lavorare, ovvero cerca di sgattaiolare in tutti i modi con badge falsi, certificati di malattia fasulli, applicazione della famigerata Legge 104 senza alcuna vera motivazione e tanti altri sotterfugi degni di uomini delle caverne.
Però, tutto questo non crea l’opportuno sdegno o reazione da parte dell’opinione pubblica, salvo quando si è colpiti direttamente dalla disfunzione.
Nel settore delle partite Iva, chi non produce non mangia. è pacifico, quindi, che lavora per raggiungere risultati. Il mercato, severo e implacabile esaminatore, promuove o boccia chi vi sta dentro, senza sconti per nessuno.
Anche fra i dipendenti privati vi è necessariamente la ricerca della produttività. Diversamente, infatti, le aziende non riescono a far quadrare i conti.
Inesorabilmente, il settore che non funziona è quello pubblico, pur essendovi all’interno gran parte di dirigenti e dipendenti capaci e preparati. Manca però il valore di responsabilità, per cui chi si trova nei posti di vertice deve prendere decisioni, secondo scienza e coscienza, e attuarle con la necessaria tempestività.
Si tratta di una questione di metodo, come diceva René Descartes (1596 – 1650). Ed è proprio in funzione del metodo che dovrebbero essere riformati i contratti del pubblico impiego, sia quello dei dirigenti che il secondo dei dipendenti. La riforma dovrebbe andare nella direzione di corrispondere una parte fissa in ogni caso e un’altra variabile, subordinata ai risultati raggiunti, con una regola uguale per tutti, dirigenti e dipendenti.
Non si può più accettare che chi riceve compensi possa prescindere dalla loro correlazione con quanto produce. Se si continuasse come avviene da una trentina d’anni, non si potrebbe raddrizzare la rotta della nave Italia, che oggi soffre di forti sbilanciamenti al proprio interno, mentre dovrebbe esserci equità fra tutti i suoi componenti, in modo da evitare discriminazioni e diseguaglianza, come in atto avviene.