Sono inutili i capitali senza le conoscenze - QdS

Sono inutili i capitali senza le conoscenze

Carlo Alberto Tregua

Sono inutili i capitali senza le conoscenze

giovedì 15 Dicembre 2016

Innovazione fondamentale per la crescita

L’Italia è piena di soldi, la raccolta del risparmio aumenta (dati Censis), ma il cavallo non beve, cioè gli impieghi nei confronti delle imprese e dei cittadini non hanno un corrispettivo aumento.
La Bce, con provvedimento del suo Consiglio direttivo di giovedì 8 dicembre, preso a maggioranza perché i tedeschi si sono opposti, ha deciso di continuare a comprare titoli di stato per 80 miliardi l’anno fino a febbraio 2017, mentre dal marzo successivo l’importo sarà diminuito a 60 miliardi al mese.
Dunque, la liquidità c’è ed è abbondante, ma non viene utilizzata per promuovere la crescita, lo sviluppo e l’occupazione.
In Italia ci sono 30 o 40 miliardi liquidi, pronti per essere spesi in opere pubbliche, ma mancano i progetti cantierabili delle stesse opere: una vergogna di Regioni e Comuni, che continuano a spendere soldi per la spesa corrente (cattiva), mentre dovrebbero dare assoluta priorità agli investimenti e, in primo luogo, alla redazione dei progetti, ripetiamo, cantierabili.

Vi è poi un’altra questione relativa al mancato impiego del risparmio e riguarda il livello di conoscenze indispensabili per le innovazioni, da cui appunto deriva la nascita di startup.  Comunque di nuove imprese, anche nel settore non innovativo, perché senza conoscenze nessuna azienda può essere attivata e quelle esistenti, non aggiornandosi continuamente, perdono competitività e via via sono espulse dal mercato.
Purtroppo, lo Stato italiano investe appena l’1% del Pil (16 miliardi circa) nella ricerca, che è la madre dell’innovazione, mentre la maggior parte dei Paesi avanzati spende almeno il doppio. Spendendo poco nella ricerca, viene meno la competitività e, per conseguenza, la crescita, mentre l’occupazione non aumenta adeguatamente.
Da questo scenario, risultano evidenti le cause della disoccupazione giovanile, che nel Sud ha raggiunto il 42% contro la disoccupazione media nazionale che è dell’11,6% (Istat, settembre 2016).
L’impreparazione dei giovani è conseguenza di scuola e Università arretrate e anche perché scollegate dal mondo del lavoro.
 

Germania, Svezia e Finlandia da molto tempo utilizzano la combinazione scuola-lavoro per cui, nell’ultimo triennio, i giovani trascorrono nelle aziende da due a tre mesi per anno.
In Italia, i giovani non sanno neanche cosa siano le aziende. Questo accade per almeno due motivi: il primo riguarda il corpo insegnanti, che ha il terrore di relazionarsi con le aziende data l’impreparazione a riguardo; il secondo è conseguenza della disorganizzazione del sistema scolastico, che appunto non prevede il pendant scuola lavoro.
La Buona scuola (Legge 107/2015) ha previsto l’attivazione del binomio scuola-lavoro, ma l’anno scolastico iniziato da poco non sta rendendo operativa la norma, salvo qualche caso che non costituisce la regola.
Ai giovani bisogna inculcare la filosofia del lavoro e come l’apprendimento scolastico serva a integrarsi nel mondo del lavoro.
Non si può assistere alla moltitudine di maturati che, dopo aver varcato la soglia di uscita dalla scuola, anche meritoriamente, è spaesata perché non sa cosa fare.

A questi giovani bisogna dare opportunità di lavoro, non raccomandazioni per essere assunti nel settore pubblico o privato, perché questo meccanismo distorce il rapporto fra i cittadini.
Gli insegnanti bravi dovrebbero insegnare, come requisito principale per avere successo della vita, il valore del merito e l’altro valore non meno importante che è quello della responsabilità conseguente al dovere di ogni cittadino di prendere decisioni e diventare operativo.
È difficile cambiare la mentalità italica basata sulla cultura del favore, che è a sua volta basata sullo scambio fra favore e bisogno. Tuttavia, non si può pensare di diventare una nazione progredita, che cresca al ritmo di 2/3 punti di incremento di Pil all’anno, se non si agisce profondamente su tutti i comparti, in modo che diventino efficienti sulla base, ripetiamo, dei valori di merito e responsabilità.
In questo quadro, l’Università ha maggiore responsabilità, per il momento disattese.

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