In Sicilia il 42,5% dei bimbi nasce con parto cesareo - QdS

In Sicilia il 42,5% dei bimbi nasce con parto cesareo

Giulia Cosentino

In Sicilia il 42,5% dei bimbi nasce con parto cesareo

giovedì 09 Marzo 2017

In Italia troppi casi rispetto al resto d’Europa: il 34% delle nascite richiede un intervento chirurgico. Paura e disinformazione frenano la scelta del parto naturale alla seconda gravidanza

ROMA – In Italia, rispetto ad altri Paesi europei, accade spesso che molti bambini nascano con taglio cesareo, una pratica chirurgica che in alcuni casi potrebbe essere evitata anche dopo essere già stati sottoposti a un primo intervento. Secondo i dati del Ministero della Salute nel 2015 il 34% dei bambini è nato in questo modo. Si tratta di una leggera flessione dello 0,7% rispetto al 2014 quando le nascita furono oltre 493mila.
Se l’Italia detiene il primato europeo, analizzando la singole Regioni la situazione non va che a peggiorare. In alcune zone l’incidenza di tagli cesarei è molto alta. A questo si aggiunge il minor numero di parti vaginali dopo il cesareo, frutto di disinformazione, paura e strutture non dotate di protocolli consoni alla possibilità di “provare” per lo meno ad avere un travaglio di prova a seguito di un parto cesareo.
In Campania i cesarei sfiorano la percentuale del 60%, seguono la Sicilia, (42,5 per cento), Puglia (41,7 per cento) e Lazio (39 per cento). Le più virtuose risultano la Toscana e la Valle d’Aosta, mentre il Trentino Alto-Adige è addirittura un modello da seguire con la sua percentuale del 10%.
A partire dal 1985, la comunità medica internazionale ha ritenuto che il tasso ideale di tagli cesari dovesse essere compreso tra il 10% e il 15%. Da allora si è assistito a un progressivo incremento dell’incidenza di tagli cesarei.
Il taglio cesareo, se eseguito sulla base di una specifica indicazione medica, può effettivamente ridurre la mortalità materna e perinatale. Tuttavia non ci sono evidenze scientifiche che dimostrino i benefici del parto cesareo per le donne e per i bambini per i quali la procedura non sia necessaria. A questo proposito si potrebbe ricorrere al Vbac (vaginal birth after caesarean section), ovvero al parto naturale dopo uno (ed a volte più) cesarei, conosciuto anche come “travaglio di prova”. Si tratta di una pratica nata negli Stati Uniti negli anni ‘70 e che via via è stata importata da altri Paesi, compresa l’Italia, dove ancora regna disinformazione e paura.
Diffondere invece questa informazione è uno dei principali scopi del progetto Optibirth, finanziato dalla Comunità Europea, Un programma di informazione e sostegno alle donne ad opera di ostetriche e ginecologi che ha coinvolto 15 ospedali e 2 mila donne. Si tratta di un’iniziativa messa in piedi dal 2012 da sei Stati europei (Finlandia, Svezia, Irlanda, Paesi Bassi e Germania), compresa l’Italia. L’iniziativa si è già conclusa, e la responsabile del programma, Cecily Begley, insegnante al Trinity College di Dublino, sta presentando i risultati in tutti i paesi europei partecipanti. Qualche settima fa è stata la volta dell’Italia. L’intervento è stato progettato per aumentare il potere decisionale, l’impegno e il coinvolgimento delle donne con un’anamnesi di almeno un TC. Si spera che le percentuali di VBAC aumentino, passando dal 25 al 40 %.
“Il progetto – ha spiegato la Sandra Morano, Optibirth Italia – ha puntato l’obiettivo sopratutto sulle donne che già avevano dato alla luce un bambino con un taglio cesareo e che si trovavano ad affrontare il secondo parto. È diffusa la credenza che chi abbia avuto il suo primo bimbo in una sala operatoria, ci debba tornare anche per partorire il secondo figlio”. Ma non è proprio così.

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