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No, non è la Bbc ma è la Rai, la Rai Tv

Carlo Alberto Tregua

No, non è la Bbc ma è la Rai, la Rai Tv

sabato 29 Aprile 2017

Ricavi 2,8 mld, microutile 18 mln

La scomparsa di Gianni Boncompagni mi ha fatto ricordare la trasmissione Alto Gradimento, da lui condotta insieme a Renzo Arbore, nella quale lanciarono una sigla intitolata: “No, non è la Bbc ma è la Rai, la Rai Tv”, una chiaccherata piena di nonsense che prendeva gaiamente in giro il colosso controllato da democristiani, socialisti e comunisti.
La Rai è stata sempre oggetto di desiderio dei partiti che di volta in volta formavano i governi ed ancora oggi, nonostante il disgregarsi della partitocrazia ante 1992, continua ad essere governata da chi si alterna alla guida del Paese.
Vero è che esiste una Commissione di Vigilanza, sempre presieduta da un membro dell’opposizione, in atto il pentastellato Roberto Fico, ma è anche vero che i poteri della stessa Commissione sono più formali che sostanziali.
Con la riforma del 2015 è stato trasferito molto potere decisionale al direttore generale, potere sottratto al Consiglio di amministrazione, sbilanciando così l’esecutivo rispetto all’amministrativo.
 
Al di là della struttura gestionale, bisogna ricordare che la Rai è una società per azioni, il cui valore di produzione nel 2016 è stato di 2.809 milioni, di cui 2.154 come gettito del canone e 655 milioni come ricavi della pubblicità, con utile netto di  18,1 milioni.
Con i suoi dodicimila dipendenti e circa duemila giornalisti, il colosso mediatico utilizza quattordici canali televisivi e dodici reti radiofoniche, per cui l’attività informativa, di intrattenimento e di inchiesta è vasta e opprime il mercato, violando palesemente la concorrenza.
La Rai approfitta della sua condizione egemonica e si permette di pagare gli intrattenitori con cifre annuali astronomiche, fra cui ricordiamo Fabio Fazio e Carlo Conti (2 milioni), Antonella Clerici, Flavio Insinna (1,5 milioni), Bruno Vespa (1,3 milioni). Ma questi non sono compensi di mercato, infatti nessun’altra televisione pagherebbe a codesti signori tali cifre.
È intervenuta una legge dello Stato che obbliga di tagliare i compensi a dirigenti e conduttori portandoli al tetto massimo di 240mila euro l’anno, ma Campo dall’Orto è insorto dicendo che “è in gioco la libertà di impresa”. 
 
Vorremmo chiedere all’esimio dg della Rai, come possa affermare una menzogna colossale ritenendo che la Rai sia un’impresa, se non solo formalmente in quanto Spa.
Un’azienda che incassa il 76% a titolo di canone, che ricordiamo essere una tassa, non è un’impresa, è un carrozzone pubblico che gestisce soldi pubblici, cioè tributi pagati dagli italiani. Nonostante ciò, presenta uno striminzito utile netto di appena 18,1 milioni.
Da cinquant’anni anni si parla di riformare la Rai. ci hanno provato democristiani e socialisti, pentapartiti e quadripartiti, convergenze parallele di Moro, la fase della solidarietà nazionale (l’accordo sotterraneo tra Dc e Pci) e poi, dal 1994, centrodestra e Centrosinistra. Ma il colosso è lì, dominante e imperante e nessuno ne scalfisce il potere.
Da più parti sono venute proposte  di riforma basate sul buon senso, per esempio copiare il modello britannico della Bbc.  

Quell’azienda editoriale gestisce un solo canale ma senza pubblicità, mentre nel sistema del Regno Unito vi sono numerosi canali fra loro in concorrenza. La Bbc sostiene il suo conto economco con un canone di circa 180 sterline l’anno ma non ha introiti pubblicitari.
Anche nel caso della Rai, dovrebbe rimanere il canale nazionale sorretto dal canone, ripetiamo, di 2.154 milioni di incassi, e mettere sul mercato gli altri tredici canali televisivi da assegnare ad un azionariato diffuso, cioè con un tetto massimo al numero delle azioni possedute di ogni azionista.
All’interno del bilancio della Rai non vi è una suddivisione fra gestione pubblica (basata sul canone) e gestione privata (basata sulla pubblicità). Dalla combinazione dei due introiti, che hanno criteri diversi, nascono fatti e fattacci poco commendevoli perché non vi è nitidezza fra i due settori. Ecco perché la Rai è in condizioni di strapagare conduttori e personaggi, non subendo il controllo del mercato.
È ora di far cessare questa anomalia che incrina la Democrazia e di ripristinare le condizioni di mercato ove prevale il merito e non la cultura del favore, con un vero servizio ai cittadini, senza rincorrere l’audience.

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