Il lavoro è un diritto? No, è un dovere - QdS

Il lavoro è un diritto? No, è un dovere

Carlo Alberto Tregua

Il lavoro è un diritto? No, è un dovere

venerdì 26 Maggio 2017
L’articolo 1 della Costituzione recita che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, “degli altri”, sosteneva un buontempone. Il successivo articolo 4 conferma il diritto al lavoro, ma aggiunge che la Repubblica “promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto”.
Tradotto significa che si devono mettere a disposizione di tutti i cittadini le opportunità di lavoro, di modo che ognuno possa utilizzare le proprie capacità e le proprie attitudini, in una sana competizione, in base al merito, secondo il quale chi ha più capacità va avanti e chi ha meno capacità sta indietro. Fatta salva la massima buona volontà e lo spirito di sacrificio che ognuno deve mettere per imparare a lavorare.
Ogni cittadino italiano dovrebbe preoccuparsi di acquisire le competenze necessarie per rispondere positivamente alle offerte di lavoro, che ci sono nel mercato, anche in questo secolo in cui la tecnologia ha fatto un grosso balzo in avanti.

L’innovazione è il carburante del progresso. Esso avanza continuamente e con la velocità di crescita incessante. Ma gran parte dei cittadini italiani non si adegua a questo ritmo, per cui essi restano molto indietro rispetto all’innovazione stessa. E, restando indietro, non sono in condizione di rispondere alle offerte di lavoro che ci sono nella misura di centinaia di migliaia, con la conseguenza che si rimane disoccupati o inoccupati, non già perché il lavoro non ci sia, quanto perché non si è in condizioni di poterlo esercitare.
L’offerta e la domanda di lavoro sono come la presa e la spina, che possono unirsi positivamente solo se compatibili. Ed è questo il grande vulnus del sistema italiano: l’incompatibilità tra domanda e offerta.
Se, anziché fare pietismo a ogni piè sospinto, le istituzioni nazionali, regionali e locali creassero un sistema di introduzione al lavoro mediante appositi meccanismi che formassero i richiedenti, la disoccupazione potrebbe calare di qualche punto.
Invece, dobbiamo accertare il fallimento dei Cpi (Centri per l’impiego) e di tutte quelle strutture nazionali e regionali utilizzate come ammortizzatori sociali per assumere personale, ma senza alcuna capacità di svolgere il compito loro affidato.

 
Mio padre (classe 1896) nacque in una poverissima famiglia. Mi diceva che, quando aveva quattro anni, sua madre lo mandava al mercato a vendere uova. Mi raccontava di quante notti passava all’aria aperta con una pietra per cuscino.
Ma lui si ribellò a questa povertà e, lavorando venti ore al giorno, per decine e decine di anni, e attraverso due Guerre (la prima, dal 1915 al 1918, e la seconda, dal 1939 al 1945, anno in cui si concluse con la Conferenza di Jalta), si fece una discreta posizione. Ma quanto sudore, quanti sacrifici, quante rinunzie per realizzare il suo obiettivo.
L’altro giorno, prendendo il caffè nel bar, dove vado da oltre 40 anni, uno degli addetti al servizio mi ha confessato: “Lavoro dodici ore al giorno e ringrazio Dio che mi lascia questo lavoro ormai da vent’anni”.
Un’altra testimonianza importante che chi vuole lavorare e se il lavoro sa farlo, lo trova. Altro che svaghi, fine settimana, discoteche, spinelli ed altro.

Lo scorso mese di aprile, vi sono stati tre ponti che hanno sconquassatto la pubblica amministrazione e l’economia, con dipendenti e dirigenti attenti a collegare un ponte con l’altro, in modo da ridurre i giorni di lavoro.
Una persona di buon senso mi diceva: “Continuiamo a fare i ponti (per non lavorare), anziché riparare i ponti”. Si riferiva a tutti quelli che sono crollati in questi ultimi mesi, con ciò puntando il dito contro chi ha avuto responsabilità nel realizzare quelle opere pubbliche, senza controllare la rispondenza ai progetti. Anche coloro che avrebbero dovuto fare la manutenzione ordinaria e straordinaria non vi hanno provveduto.
Quanto scriviamo arriva a un punto nodale del lavoro. Esso deve concidere con il nostro hobby, cioè dobbiamo amarlo, anche quando non ci piace, in attesa di trovarne uno che ci piacerà.
Dobbiamo essere consapevoli che il lavoro per il lavoro non serve a niente. Esso deve produrre risultati e cioè ricchezza, imposte e nuovo lavoro. Senza risultati, tutto è routine: inutile e perniciosa.

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