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L’acqua c’è, ma la Sicilia non la usa

Rosario Battiato

L’acqua c’è, ma la Sicilia non la usa

martedì 10 Ottobre 2017

Altro che siccità: a settembre precipitazioni sopra la media, ma solo il 10% viene captato e la metà si perde nelle reti. Il mare ignorato: la desalinizzazione vale appena l’1% del prelievo idrico regionale

PALERMO – L’acqua arriva copiosa dal mare e dal cielo, ma la Sicilia si limita a riceverla passivamente. Nel mese di settembre le precipitazioni medie siciliane sono state di gran lunga superiori alla media, eppure le infrastrutture idriche isolane, tra invasi che non hanno piena disponibilità e condutture colabrodo, non sono in grado di gestirle in maniera efficace, mentre il prelievo delle acque marine, attraverso il processo di desalinizzazione, vale appena l’1% del totale del prelievo idrico regionale.
Superando le considerazioni più ovvie che possono sorgere sul tema della dissalazione delle acque marine – la Sicilia è un’Isola, tanto per dirne una –, si tratta di un tema che corre il rischio di vederci arrivare in ritardo. A livello mondiale la Global Water Intelligence, il gruppo di ricerca sorto in seno all’Università di Oxford, ha stimato che nel corso del prossimo quinquennio la dissalazione e il riciclo delle acque reflue sono destinate a crescere dell’11,4% a livello mondiale. Un antidoto alla siccità e un grande business visto che si stima un valore complessivo di mercato pari a quasi 12 miliardi di dollari entro il 2025.
Del tema si è discusso lo scorso giugno a Palermo, nell’ambito di Watec Italy 2017, la mostra convegno internazionale dedicata alla gestione e alla salvaguardia della risorsa idrica, e sarà ripreso in questi giorni a Bari nel corso del Festival dell’Acqua, cominciato sabato e che si chiuderà domani.
La dissalazione, di fatto, porta con sé due considerazioni che Antonio Cianciullo, esperto ambientale di repubblica.it, ha messo in evidenza nei giorni scorsi sul suo blog: da una parte una produzione mondiale imponente da 100 milioni di metri cubi al giorno (i più attivi sono diversi Paesi Arabi e poi Australia, East Cost degli Stati Uniti e Israele) e dall’altra i dubbi sui sistemi di alimentazione e smaltimento delle soluzioni saline concentrate degli impianti di dissalazione.
Su quest’ultimo passaggio occorre fare una ulteriore precisazione perché c’è il rischio concreto di andare a toccare due criticità ambientali: il mancato utilizzo di fonti rinnovabili per il processo di dissalazione ricondurrebbe il dibattito al peso emissivo delle fonti fossili mentre la restituzione in mare delle soluzioni saline concentrate potrebbe avere – come già registrato in alcuni casi – un impatto decisivo sulla desertificazione dei tratti di costa. Due temi da tenere in considerazione nell’applicazione della nuova tecnologia che di fatto potrebbero determinarne la sostenibilità nel prossimo futuro.
Attualmente la Sicilia resta una delle poche regioni a contribuire in maniera sostanziosa a quel 0,1% di prelievo nazionale che arriva dalla dissalazione. Nell’Isola, stando agli ultimi dati disponibili rilasciati dall’Istat nel 2014 (aggiornamento al 2012), il prelievo più importante arriva dai pozzi (419 milioni di metri cubi all’anno), seguito dalle sorgenti (169 milioni) e quindi dai bacini artificiali (113 milioni). La dissalazione delle acque marine o salmastra vale appena 6,8 milioni, cioè l’1% del totale del prelievo isolano. Per comprendere quanto l’Italia sia indietro in questo processo, è sufficiente ricordare che il basso prelievo siciliano dalla dissalazione vale comunque l’86,2% del totale nazionale.
Sulla dissalazione, inevitabilmente, si dovrà tornare, anche perché gli esempi siciliani non sono proprio un inno all’efficienza, se consideriamo che il dissalatore di Lipari seppur in funzione necessita ancora di essere ultimato – nel marzo del 2016 Crocetta aveva dichiarato lo scandalo di un impianto che non produce “i novemila metri cubi d’acqua per il quale è stato costruito” – mentre hanno funzionato a singhiozzo o sono del tutto bloccati quelli di Gela, Presidiana e Porto Empedocle. Lo scorso febbraio l’ex sindaco di Erice, Giacomo Tranchida, aveva presentato un esposto contro l’Eas (ente acquedotti siciliani in liquidazione) per diversi aspetti legati alla distribuzione dell’acqua, mettendo in particolare in evidenza un’azione “in corso presso il Tribunale regionale delle acque con la quale abbiamo chiesto il risarcimento dei danni provocati alla rete idrica comunale dalla pessima qualità dell’acqua del dismesso dissalatore regionale di Nubia, come acclarato nella relazione tecnica depositata nel settembre 2014 dal perito nominato dal Tribunale di Trapani nell’ambito di un procedimento per accertamento tecnico preventivo sempre azionato dall’amministrazione Tranchida”.
Sulla dissalazione si dovrà tornare con impianti adeguati e funzionanti, ma intanto l’acqua c’è, soltanto che non riesce a intercettare. Il ministro Galletti ha ammesso che l’Italia riesce a riutilizzare soltanto l’11% dell’acqua piovana (dati Ispra) e che ci vorrebbero più invasi. A settembre, secondo un’elaborazione di meteo.it, in Sicilia le piogge hanno fatto registrare una intensità decisamente superiore alla media, pari al 44% in più del solito. Nella parte sud-orientale dell’Isola si sono superati i 150-170 litri di pioggia per metro quadrato.
Eppure invasi e conduttore non sono in grado di trattare adeguatamente una risorsa che è sempre più preziosa. In alcuni comuni isolani le vecchie condutture perdono fino alla metà dell’acqua immessa nelle reti di distribuzione, mentre gli invasi non operano al 100% delle proprie capacità. Al primo settembre scorso il livello dei volumi complessivi invasati per tutte le utilizzazioni (irriguo, potabile, elettrica) è stato pari a 235,78 milioni di metri cubi contro i 351 dello stesso mese dello scorso anno.

 
Israele, esempio da seguire metà acqua da dissalazione
 
PALERMO – I dissalatori non funzionano in Sicilia, ma questo non vuole dire che non ci siano esempi da seguire nel resto del mondo. Il modello più riconosciuto è quello di Israele che, dopo la  crisi idrica del 2008, ha avviato un programma intenso di sensibilizzazione all’utilizzo, ma anche sistemi di riutilizzo delle acque reflue per l’irrigazione e di potenziamento delle infrastrutture dedicate alla desalinizzazione.
Nel 2013 è stato inaugurato l’impianto di Sorek, il più grande del mondo che sorge a pochi chilometri da Tel Aviv e che produce ogni anno 150 milioni di metri cubi di acqua. Prima di questo, tra gli altri, c’erano stati quelli di Askelon (127 milioni di metri cubi), Hadera (140 milioni) e ancora diversi ne sono previsti per il prossimo futuro. Il Paese, che è uno dei pochi dell’area a non patire l’emergenza idrica, ha introdotto tecnologie già esistenti e le ha migliorate sulla base delle proprie esigenze.
Gli ultimi dati dicono che circa la metà dell’acqua potabile arriva dalla desalinizzazione, mentre l’obiettivo ambizioso è di puntare al 70% entro il 2050.
Non mancano gli esempi anche nel resto del mondo, ma restano ancora le perplessità legate ai costi energetici, perché la tecnologia è considerata particolarmente energivora e quindi incide in maniera decisa sulla bolletta del Paese. Per la Sicilia c’è l’occasione di inserirsi tra gli ultimi arrivati, approfittando delle tecnologie più recenti e sostenibili. E anche in questo caso non mancano i modelli da seguire.
 

 
E intanto va avanti la ricerca per dissalatori più efficienti
 
PALERMO – Il futuro è scritto: produzione di acqua potabile tramite la desalinizzazione a basso impatto energetico. Uno degli ultimi arrivati è il nuovo sistema Nesmd, la ricerca del Center for Nanotechnology Enabled Water Treatment (Newt) della Rice University. Si tratta di un progetto che utilizza “una combinazione di tecnologia di distillazione a membrana e nanoparticelle di carbonio – ha scritto Giorgio Giordano sul quotidiano ilsecoloXIX.it  – che raccolgono fino all’80 per cento della luce solare per generare vapore”. 
Nel 2015 un progetto del Massachusetts Institute of Technology (Mit) e di Jan, una società di sistemi di irrigazione, vincitore del prestigioso premio “Desal 2015” dell’Agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti (Usaid), era stato strutturato sulla base di un nuovo metodo di elettrodialisi inversa.
In altri termini i pannelli solari ricaricano le batterie che alimentano una macchina per l’elettrodialisi che “funziona facendo passare l’acqua tra due elettrodi con carica opposta – si legge nella dichiarazione rilasciata da Amos Winter del Mit – e poiché il sale disciolto in acqua consiste in ioni positivi e negativi, gli elettrodi tirano fuori gli ioni dall’acqua, lasciando quella dolce al centro del flusso. Una serie di membrane poi separano l’acqua dolce da quella salata, raggi ultravioletti la disinfettano”.
La tecnologia non si ferma e il prossimo step nel processo di desalinizzazione consiste nel rintracciare delle strade alternativa all’alimentazione energetica degli impianti e permettere costi di gestione più sostenibili a livello economico e ambientale.

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