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Tutti i volti della malagiustizia

Paola Giordano

Tutti i volti della malagiustizia

giovedì 07 Dicembre 2017

Informazioni di garanzia e gogna mediatica, il richiamo di Mattarella: “La toga non è un abito di scena”. Lentezza dei processi, indagini temerarie, errori giudiziari e ingiusta detenzione

Durata irragionevole dei processi, errori giudiziari, ingiusta detenzione, fuga di notizie coperte dal segreto istruttorio, gogna mediatica e verità “televisiva” che si sovrappone a quella processuale: sono questi i tanti volti della cosiddetta malagiustizia italiana. Secondo quanto emerge dallo studio Cer-Eures “Giustizia civile, imprese e territori”, presentato lo scorso ottobre a Roma da Confesercenti nel corso del convegno “Giustizia, Sicurezza, Impresa”, l’inefficienza della giustizia in Italia ci costa ben 2,5 punti del prodotto interno lordo, pari a circa 40 miliardi di euro.
 
Questa è l’enorme cifra che si potrebbe recuperare dalla sola giustizia civile italiana, se essa si allineasse, quanto meno sui tempi, a quella tedesca. E non è tutto perché i vantaggi che lo Stato otterebbe non si limiterebbero solo all’aumento del Pil: una giustizia più rapida, secondo il rapporto in questione, comporterebbe anche a riduzione del tasso di disoccupazione di circa mezzo punto, con un recupero di circa 130mila occupati, e circa mille euro all’anno di reddito pro-capite.
 
Tale stima, è bene ricordarlo, non contempla la cifra che lo Stato, e dunque la collettività, hanno dovuto sborsare a titolo di risarcimento per l’ingiusta detenzione, vale a dire qualcosa come 648 milioni di euro dal 1992 ad oggi. Né include il costo stanziato per le attività di indagine che stanno a a monte di un processo: solo per quest’anno, ilministero della Giustizia ha previsto di spendere oltre 230 milioni di euro per le intercettazioni, vale a dire il 22%della spesa totale. Difficile stabilire quante risorse saranno impiegate per attività investigative che porteranno ad un nulla di fatto, ma è innegabile che quello delle intercettazioni resta uno dei capitoli di spesa più cospicui e più importanti sui quali si basano le indagini dei Pm.
 
L’efficienza della nostra giustizia civile appare ancora lontana dagli standard degli altri Paesi europei e a piangerne le conseguenze sono senza dubbio i cittadini. In media, nel Belpaese, per arrivare ad una sentenza nelle procedure civili occorrono 991 giorni: più del doppio della media registrate in Germania (429 giorni) e Francia (395 giorni).
 
Ad acuire tale divario contribuiscono anche le profonde differenze riscontrabili sul territorio nazionale. Nel Sud Italia la giustizia viaggia a rilento: secondo alcune stime elaborate dal Centro studi Confindustria basate sull’eterogeneità geografica nella lunghezza dei processi di primo grado, la durata media di un processo civile ordinario di primo grado da Torino a Messina risulta triplicato: da 500 a ben 1.500 giorni.
 
Tutto ciò va a scapito dei diritti dei malcapitati di turno, sia che si tratti di esponenti della politica e delle Istituzioni (come nei casi analizzati sotto) sia che si tratti di semplici cittadini.Apagare un prezzo alto per le inefficienze di un sistema elefantiaco che non dovrebbe tollerare falle così evidenti sono tutte quelle persone che, alla fine di un tortuoso percorso giudiziario, riescono a dimostrare la propria innocenza, quasi sempre senza nessuna riabilitazione “mediatica”. E anche tutti noi, perché quando la Giustizia fallisce è il cittadino a sentirsi meno sicuro.
 

 
Che la giustizia italiana non goda di ottima salute non è, ahinoi, una novità: dagli errori giudiziari alla fuga di notizie sono tante le falle del nostro sistema giuridico ad essere sotto gli occhi di tutti ormai da decenni. Nella lunga lista di importanti personalità delle Istituzioni intervenute inmerito a tali criticità spicca il nome del Capo dello Stato che lo scorso 9 ottobre al Quirinale, nel corso dell’incontro svoltosi con i giovani magistrati in tirocinio, ha pronunciato a tal proposito un vero e proprio monito: “La toga non è un abito di scena ma viene indossata permanifestare il significato di ‘rivestire’ il magistrato, che deve dismettere i propri panni personali ed esprimere, così, appieno la garanzia di imparzialità”.
 
Pochi giorni prima, il Procuratore Capo della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, in una circolare diffusa a tutti i componenti del suo ufficio ha invitato alla “prudenza” e a non avere fretta “sull’iscrizione di un indagato”, evidenziando come “sostenere che una querela o una denunzia debbano comportare automaticamente iscrizione nel registro degli indagati come atto dovuto, è un errore. Non sta scritto da nessuna parte. Anzi, la Cassazione ha affermato che il potere di disporre delle iscrizioni al modello 21 attribuisce impropriamente alla polizia giudiziaria o al privato un potere che non ha”.
 
L’iniziativa di Pignatone è stata apprezzata dal Vice Presidente del Consiglio superiore della magistratura (Csm), Giovanni Legnini, che in un’intervista al Corriere della Sera ha ribadito come“nel nostro Paese si possa fare crescere la cultura delle garanzie senza in alcun modo incidere sul principio dell’obbligatorietà dell’azione penale né sul rigore dell’accertamento del reato. Si può essere garantisti senza pensare di frapporre ostacoli alle indagini”.
 
Ad aver sollevato pubblicamente le intricate questioni connesse alla malagiustizia era stato, ad inizio anno, anche il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, il quale in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, ha sottolineato il bisogno di “aprire finestre di controllo giurisdizionale nelle indagini dei pm”, ponendo così l’attenzione sulla mancanza di controlli sulle attività di chi ha il compito di vigilare sull’osservanza della legge, sulla regolare amministrazione della giustizia, sulla tutela dei diritti. Il prestigio e l’autorevolezza dei soggetti intervenuti sulla spinosa questione legata ai “mali” della giustizia italiana, impone una riflessione seria sull’esigenza di una seria inversione di marcia.
 
BRUNO CONTRADA: “25 anni di sofferenze”
PALERMO – È durata 25 anni l’incresciosa vicenda giudiziaria che ha visto protagonista Bruno Contrada, ex dirigente della Squadra mobile di Palermo e numero due del Sisde. La decisione presa dalla Cassazione restituisce onorabilità ad un uomo ingiustamente accusato, ma lascia molto amaro in bocca: “Non ho nulla da festeggiare – ha commentato Contrada. Ho solo la consapevolezza di un quarto di secolo scandito da sofferenze”. I fatti: arrestato nel dicembre del 1992 con l’accusa di concorso in associazionemafiosa, Contrada viene condannato in primo grado a dieci anni e destituito dal corpo di Polizia. La sentenza è ribaltata in Appello con un’assoluzione, ma tale decisione viene annullata con rinvio dalla Cassazione. Nel febbraio del 2006 la Corte d’Appello conferma la condanna a dieci anni: l’ex dirigente la sconta per intero tra carcere e arresti domiciliari. Due anni fa la Corte europea dei diritti dell’uomo stabilisce che non avrebbe dovuto esserci alcun processo: all’epoca dei fatti contestati il reato “non era chiaro, né prevedibile”. Viene dunque chiesta prima la revisione del processo, poi l’incidente di esecuzione ma la Corte boccia l’una e l’altra istanza. Lo scorso luglio la svolta: la Cassazione, recependo la sentenza della Cedu, revoca la condanna. È la fine di un incubo che però non potrà essere dimenticato: “Non c’è assolutamente piùmodo di riparare all’ingiustizia subita”.
 
RICCARDO MINARDO: “Otto anni di calvario”
RAGUSA – Assolto perché “il fatto non sussiste”: questa la decisione del Tribunale di Ragusa, giunta dopo un calvario durato otto anni, nei confronti dell’ex deputato regionale ed ex senatore prima di Fi poi passato all’Mpa, Riccardo Minardo, e degli altri diciannove imputati coinvolti. Accusato di associazione a delinquere, estorsione e malversazione nell’ambito dell’inchiesta ribattezzata “Copai” (acronimo di Consorzio di sviluppo dell’area iblea), l’ex parlamentare ibleo ha sempre professato la propria innocenza contro le accuse di aver messo in piedi un’associazione a delinquere finalizzata al conseguimento di finanziamenti statali ed europei. L’inchiesta, condotta dalla Procura di Modica, ruotava attorno a presunte truffe aggravate ai danni dello Stato, di altri enti pubblici e della Comunità europea e portò, nell’aprile del 2011,all’arresto dell’ex senatore e di sua moglie e di altri diciotto presunti complici. A distanza di anni, trascorsi aggrappandosi alla speranza di riuscire a dimostrare quale fosse la verità sulla vicenda, le infamanti accuse sono cadute: “È indubbio che sia stato vittima di un grave eccesso giudiziario – ha dichiarato l’ex senatore – e i giudici che hanno accertato la verità mi hanno restituito la serenità”.
 
OTTAVIANO DEL TURCO e la “Sanitopoli abruzzese”
ROMA– Un’altra clamorosa assoluzione è quella decisa, lo scorso fine settembre, dalla Corte d’Appello di Perugia a conclusione del processo all’ex presidente della RegioneAbruzzo, Ottaviano Del Turco. Accusato di associazione a delinquere e di induzione indebita, è stato assolto dell’accusa più grave perché “il fatto non sussiste”. Resta in piedi, seppur ridotta da 4 anni e due mesi a 3 anni e 11 mesi, la pena per il reato minore, ma la difesa si è già messa in moto per richiedere la revisione del processo. I giudici hanno inoltre allegerito la condanna all’interdizione dai pubblici uffici che da perpetua è stata diminuita a cinque anni. Coinvolto nell’inchiesta ‘Sanitopoli abruzzese’ insieme ad altre nove persone – tra le quali l’ex segretario generale della presidenza della Giunta regionale, Lamberto Quarta, e l’ex capogruppo della Margherita in Consiglio regionale, Camillo Cesarone (anch’essi assolti con la medesima formula), Del Turco viene arrestato nel luglio del 2008: trascorrerà nel carcere di Sulmona 28 giorni e ai domiciliari due mesi. All’arresto seguono quasi immediati le dimissioni dalla carica di presidente della Regione e l’autosospensione dal Pd. Dopo un iter giudiziario durato quasi dieci anni, anche questo caso si è concluso in un nulla di fatto.
 
RIMBORSOPOLI alla Provincia di Catania: tutti assolti
CATANIA– Si è chiusa con un’assoluzione anche l’intricata vicenda giudiziaria che ha scosso, nell’ottobre del 2012, l’allora Consiglio provinciale etneo e che ha visto coinvolti gli ex consiglieri provinciali Gianluca Cannavò (allora capogruppo di Fi), Antonio Danubio e Sebastiano Cutuli (rispettivamente capogruppo ed esponente dell’Udc). L’inchiesta, ribattezzata “Rimborsopoli”, scaturì da un’indagine condotta dalla Guardia di Finanza in seguito alla pubblicazione di numerosi articoli sui rimborsi alle aziende per l’attività istituzionale dei consiglieri. L’accusa, mossa nei loro confronti dai Pm, era quella di truffa ai danni dello Stato: secondo gli investigatori, i tre si sarebbero accordati con i rispettivi datori di lavoro – anch’essi assolti – per ottenere un avanzamento professionale allo scopo di percepire, dall’ente Provincia, rimborsi più alti. Nessuna truffa, però, è stata commessa: il Tribunale di Catania ha infatti stabilito, lo scorso 19 ottobre, che “il fatto non sussiste”.

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