L'urlo dei giornali: "Condannate tutti" - QdS

L’urlo dei giornali: “Condannate tutti”

Carlo Alberto Tregua

L’urlo dei giornali: “Condannate tutti”

martedì 06 Febbraio 2018

I processi si fanno in tribunale

Si è aperta una polemica tra gli avvocati penalisti modenesi, accusati di esercitare una sorta di censura sulla stampa, e l’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna. Oggetto della polemica è la rivolta di quei professionisti contro i giornalisti diventati il megafono dei pubblici ministeri.
L’accusa è mossa attraverso un libro bianco secondo la cui ricerca è emerso che “l’impostazione delle cronache giudiziarie è quasi totalmente appiattita sulle tesi dell’accusa e sulla fase delle indagini preliminari e di polizia. Mentre lo spazio dato alla difesa è percentualmente irrisorio”.
La massima parte delle notizie provengono dall’accusa e le pubblicazioni avvengono spesso in violazione di due norme del codice di procedura penale: 114, secondo comma, e 329. Essi vietano di riprodurre la testualità di atti processuali, anche quando non è venuto meno il segreto.
La conseguenza è che spesso l’indagato e i suoi legali apprendono dalla stampa che è stata emessa un’informazione di garanzia non ancora notificata: una vera porcheria.
 
La combutta fra investigatori e informatori può anche condizionare il processo vero e proprio, anche se noi riteniamo che i giudici riescano sempre, per cultura e preparazione, a mantenere quel ruolo di terzietà ed indipendenza proprio di chi deve emettere sentenze.
Quanto precede, accade perché spesso i giornalisti non leggono le notizie con spirito critico, non cercano di controllarle da almeno due fonti e dimenticano il Testo unico dei doveri dei giornalista del 27 gennaio 2016, il quale puntualmente impone loro comportamenti etici.
Sulla materia ha preso una ferma posizione l’Unione delle camere penali, ma non vi è dubbio che leggendo i giornali, quanto precede risulta evidente all’opinione pubblica.
La situazione diventa più grave quando gli indagati vengono rinviati a processo senza che il giudice delle indagini preliminari si renda conto delle ipotesi di reato e dell’insieme degli indizi, che dovrebbero essere concordanti, precisi e gravi in modo da far ragionevolmente pensare al Gip un’alta probabilità che l’accusa sia fondata.
Per cui, il numero degli assolti dai tribunali di primo e secondo grado aumenta sempre di più, come accaduto lo scorso anno.
 
Ma quando un imputato è assolto perché il fatto non sussiste o non costituisce reato o per altra motivazione, in presenza del ragionevole dubbio e in assenza di ipotesi di dolo o di intenzionalità, i buoni giornali non gli danno sufficiente spazio e relegano la notizia in posizione marginale per numero di pagina e per collocazione nella stessa.
Quanto precede è una precisa violazione del diritto dei cittadini, considerati innocenti fino a sentenza passata in giudicato.
Ovviamente, questa analisi non riguada la criminalità organizzata e i delinquenti abituali, per i quali si può presumere la loro attitudine a continuare a delinquere.
La questione delle accuse non fondate ha un riflesso economico per lo Stato perché esso deve rifondere centinaia di milioni a titolo di risarcimento del danno, il quale, una volta compiuto, non trova ristoro in somme pecuniarie, perché quando viene calpestata la dignità e la reputazione di una persona, resta nella memoria dell’opinione pubblica l’evento negativo e poco la sua riabilitazione.
 
Un esempio da non seguire riguarda gli urli che tutti i giornali hanno emesso relativamente alle accuse che i pubblici ministeri del processo Stato-Mafia hanno chiesto al collegio giudicante: quindici anni al generale Mori, dodici a Dell’Utri, sei a Mancino e così via.
Ma le richieste dell’accusa, dopo cinque anni di processo e duecento udienze, non sono state bilanciate sul piano mediatico dalle richieste della difesa, realizzando un vero e proprio sbilanciamento e quindi una destabilizzazione del principio di equità, secondo il quale l’accusa e la difesa devono avere le stesse prerogative e gli stessi mezzi.
Si tratta di un principio costituzionale del tutto pacifico, che regge sull’uguaglianza fra i cittadini e considera i magistrati parte di un ordinamento e non di un potere.
Intendiamoci, quanto precede non è una responsabilità dei giudici ma di chi vede nella giustizia lo strumento per accrescere la propria notorietà e speculare su di essa.

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