M5s, un voto contro. La protesta del Sud - QdS

M5s, un voto contro. La protesta del Sud

Carlo Alberto Tregua

M5s, un voto contro. La protesta del Sud

martedì 06 Marzo 2018

Parlamento di ex disoccupati

Nessuna sorpresa dalle elezioni di domenica, salvo la netta spaccatura del Paese, con un Sud che ha vigorosamente protestato contro l’establishment che l’ha ignorato per decenni.
Giovedì scorso abbiamo riproposto all’attenzione di lettori ed istituzioni la Questione meridionale, irrisolta perché tutti i Governi sono stati a trazione nordista. Non è un caso il successo della Lega, con un risultato intorno al 17%, conseguenza dell’intelligente piano di Matteo Salvini che, togliendo la parola Nord nel simbolo e promuovendo il suo partito nel Centro-Sud, ha acquisito voti di elettori che volevano protestare ma non si sentivano di farlo barrando il simbolo del Movimento 5 stelle.
Un voto di pancia, quello del Meridione, anche perché il programma del Movimento 5 stelle, così come evidenziato in una nostra recente inchiesta, non aveva al proprio interno nessun riferimento specifico al Sud e allo sviluppo del Mezzogiorno.
A ogni modo, il Sud ha protestato con una forza mai avuta nel passato. Il 63% di voti dati a Luigi Di Maio nel collegio uninominale della sua Avellino costituisce il simbolo della rivolta contro un sistema di potere rappresentato dal governatore della Campania, Vincenzo De Luca (Pd), divenuto insopportabile e insopportato.
 
Il partito Forza Italia non ha raggiunto lo sperato 17%, ma si è fermato intorno al 14, il che dimostra come Berlusconi non abbia più l’appeal di prima.
Da registrare il disastro di Liberi e Uguali, che per un soffio ha superato la fatidica soglia del 3%. Tutti i leader (Grasso, Boldrini, D’Alema, Bersani) sono stati bocciati nell’uninominale e forse ripescati nel proporzionale.
La parola sinistra ha perso qualunque significato: non vuol dire niente perché i cittadini capiscono soltanto chi concretamente si preoccupa di promuovere il lavoro, di abbassare la pressione fiscale e di rinnovare totalmente l’organizzazione della Pubblica amministrazione per dare quell’efficienza oggi totalmente assente.
Quattro milioni di dipendenti pubblici e delle partecipate, che consumano risorse senza dare in corrispettivo servizi di qualità, soprattutto ai cittadini bisognosi sono una vergogna.
 
E veniamo al Pd: Matteo Renzi ha perso in modo inequivocabile. Questa nuova sconfitta, dopo quella del Referendum costituzionale, l’ha messo definitivamente fuori gioco. Ieri pomeriggio ha annunciato che lascerà la guida del Partito democratico.
Non sorprendono i due risultati positivi del Pd nelle due Province autonome di Trento e Bolzano dove sono stati eletti nell’uninominale Mariachiara Franzoia e Maria Elena Boschi. Non sorprende perché i Governi hanno inondato di contributi pubblici le due Province autonome, che insieme percepiscono quanto Roma trasferisce alla Sicilia.
Torniamo al Movimento 5 stelle, che farà eleggere un terzo dei Parlamentari, in buona parte persone che non hanno alcuna esperienza istituzionale. Così, il M5s contribuirà alla formazione del Parlamento della XVIII legislatura formato in buona parte da ex disoccupati, che nella loro vita non hanno avuto mai un lavoro dipendente o autonomo e non hanno presentato mai il 730, non contribuendo alle spese dello Stato.
 
Dalle urne viene fuori un’Italia ingovernabile, contrariamente a quanto è accaduto in Germania, dove il referendum degli iscritti alla Spd ha dato un risultato del 66% a favore della coalizione con Cdu e Csu. Lì, nonostante l’assenza di un Governo per molti mesi, il Paese ha continuato a funzionare bene.
In Italia, invece, l’assenza di un Governo stabile creerà incertezza e proprio ieri la Borsa di Milano ha cominciato a mandare segnali preoccupanti.
La matassa deve essere sbrogliata dal Presidente della Repubblica, il quale attenderà che dal prossimo 23 marzo vengano eletti i presidenti delle due Camere. Al Senato, alla quarta votazione, toccherà al più votato; alla Camera le votazioni proseguiranno finché un candidato non riceverà la metà più uno dei voti.
Dopo essersi consultato con i due vertici, Mattarella affiderà un incarico, esplorativo o regolare, per appurare la fattibilità di un Governo con alleanze imprevedibili o un governo di scopo per fare la legge elettorale e rimandare il Paese al voto, in ottobre o marzo del 2019.

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