Il processo del furto della melanzana - QdS

Il processo del furto della melanzana

Carlo Alberto Tregua

Il processo del furto della melanzana

martedì 03 Aprile 2018

Malagiustizia colpisce ancora

Quando ho letto della sentenza della Corte di Cassazione che aveva assolto una donna rea di avere rubato una melanzana in un supermercato (che poi aveva restituito) sono rimasto basito.
Mi sono chiesto com’è possibile che il sistema giudiziario si sia onerato di cinque livelli della procedura per arrivare a questa conclusione.
Ricordiamoli: a seguito di denunzia del titolare del supermercato, la Procura della Repubblica competente ha aperto l’inchiesta. Accertata l’ipotesi di reato, ha chiesto al Giudice per le indagini preliminari il rinvio a giudizio dell’indagata, che così è diventata imputata.
Il Tribunale in primo grado l’ha condannata, sembra, a sei mesi di reclusione con pena sospesa. In secondo grado la Corte d’appello ha confermato la sentenza del Tribunale. Infine il processo arriva in Cassazione che stabilisce come il reato non sia punibile data l’esiguità dell’oggetto.
Alcuni magistrati, per giustificare questo lungo iter, sostengono che il reato è sempre reato, a prescindere dalla sua entità.
 
Ci sembra che questa opinione cozzi col marasma che c’è nel sistema giudiziario italiano, penalizzato da un enorme arretrato dovuto alla miscellanea fra fatti lievi, gravi e gravissimi.
Purtroppo l’obbligatorietà dell’azione penale è un vincolo per i capi delle Procure perché non possono depennare le questioni che hanno per oggetto reati talmente lievi da essere considerati quasi inestistenti.
Tuttavia, per affrontare l’enorme mole di lavoro che grava su di esse, il Procuratore capo è costretto a selezionare in ordine temporale le proprie inchieste, dando precedenza a quelle più serie, ove l’impianto indiziario sembra consistente. Ma non sempre le cose vanno in questa direzione, per cui, spesso, inchieste quasi irrilevanti prendono il posto di altre importantissime.
La massa enorme di notizie di reato che arrivano alle Procure ha di fatto messo in angolo l’obbligatorietà dell’azione penale, che a questo punto, per legge, dovrebbe essere cassata.
Siamo più volte tornati sulla Malagiustizia italiana e finché non vi saranno riforme sostanziali saremo costretti a tornarci ancora, perché non è possibile che i cittadini non conoscano di avere torto o ragione nel tempo limite europeo di tre anni.
 
È vero, c’è la legge Pinto (n. 89/2001) che dà un piccolo ristoro per la durata dei processi, ma esso è poca cosa di fronte all’endemico ritardo che penalizza chi ha ragione, perché chi ha torto ha tutto l’interesse a prolungare al massimo la durata del processo civile, e chi sa di essere colpevole e condannabile ha altrettanto interesse di prolungare il processo penale, perché in tal modo la probabilità di raggiungere il termine per la prescrizione diventa molto elevato.
Nel processo della melanzana vi sono due aggravanti rispetto a quanto segnalato: la prima riguarda il costo per la collettività, in quanto nei tre gradi del processo l’imputata, essendo nullatenente, è stata rappresentata da avvocati del gratuito patrocinio. Quindi lo Stato penalizza se stesso perché da un canto spende cifre rilevanti per svolgere tre gradi del processo e dall’altro paga gli avvocati per difendere l’accusata. Una vera follia.
 
La seconda aggravante è che trattando processi di tal genere non ne vengono svolti altri che sicuramente sarebbero più importanti, cosicché si aumenta il ritardo di questi ultimi per far svolgere quello inconsistente.
È chiaro che a dipanare questa matassa non può essere l’ordinamento giudiziario, ma è compito del legislatore semplificare le procedure, ridurre i termini, inserire sanzioni, in modo tale da restringere i margini di discrezionalità dell’accusa, della difesa e dei collegi giudicanti.
In altri termini, è necessario che i processi di ogni tipo vengano incanalati su binari snelli che non consentano discrezionalità, fermo restando che ogni giudice agisce secondo scienza e coscienza e, quindi, applica la legge secondo la propria cultura, la propria capacità giuridica, non sempre in conformità alla giurisprudenza, in quanto l’evoluzione delle sentenze ha anche una funzione innovativa.
Con l’aria che tira, con un governo in carica per il disbrigo degli “affari correnti”, non è pensabile che questo gravissimo problema che pesa sull’intera collettività, divenga oggetto di una profonda riforma. Amen! 

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