Fumatore morto di cancro, no a risarcimento - QdS

Fumatore morto di cancro, no a risarcimento

Patrizia Penna

Fumatore morto di cancro, no a risarcimento

giovedì 17 Maggio 2018

Con la sentenza n.11272 del 28 febbraio 2018, la Cassazione ha respinto il ricorso dei familiari di un tabagista incallito. L’assuefazione al fumo, estremamente dannosa per la salute, è “un atto di volizione libero”  

ROMA – Il vizio del fumo è “un atto di volizione libero”, dunque il fumatore incallito che muore di cancro non ha diritto al risarcimento da parte delle multinazionali del tabacco.
 
È questo, in estrema sintesi, il contenuto della sentenza n. 11272 del 28 febbraio 2018 della terza sezione civile della Cassazione che ha così respinto il ricorso presentato dai familiari di un uomo che era solito fumare due pacchetti al giorno di sigarette.
La vedova ed i figli sono stati condannati inoltre al pagamento delle spese legali, circa ventimila euro.
 

 
Una sentenza destinata a far discutere, quella emessa dalla Suprema Corte, ma che però mette nero su bianco le precise responsabilità di chi decide, a suo rischio e pericolo, di “cedere” all’assuefazione al fumo, estremamente dannosa per la salute.
I fatti risalgono al lontano 2002.
 
I familiari dell’uomo deceduto, si legge nella sentenza, avevano fatto presente nel ricorso che l’uomo, poi deceduto, aveva cercato di smettere di fumare, ma solo dopo aver cominciato ad avvertire i primi sintomi del carcinoma al lobo inferiore del polmone sinistro, che gli fu successivamente diagnosticato.
 
“L’attore, quindi – si legge nel documento – nell’addebbitare la propria assuefazione al fumo ed a sostenza contenute nelle sigarette, ha imputato la causa della sua malattia ai soggetti che le avevano prodotte e poste in commercio. A supporto di tale tesi, aveva sostenuto che il produttore aveva subdolamente studiato e inserito nel prodotto sostanze tali da generare uno stato di bisogno imperioso con dipendenza fisica e psichica tali da indurlo a diventare un tabagista incallito”.
 
Aveva, pertanto, citato in giudizio produttori e distributori delle sigarette, ai quali aveva ascritto la responsabilità di aver importato e commercializzato i prodotti da fumo, in particolare le sigarette. Aveva citato anche il ministero della Salute al quale ha attribuito la responsabilità di avere omesso di salvaguardare la salute pubblica non obbligando le multinazionali e lo Stato stesso ad offrire uno prodotto quanto più naturale, privo di rischi per la salute e di quelle sostanze che producono assuefazione. Aveva quindi chiesto che fosse accertato e dichiarato che le sigarette prodotte contenevano sostanze nocive all’organismo che procuravano nel tempo assefuazione.
 
“In conseguenza – scrivono i giudici della Suprema corte ricostruendo i fatti – di tale statuizione aveva chiesto che fosse accertato e dichiarato che l’attore non aveva mai prestato un libero consenso allorquando aveva acquistato le sigarette essendo stato lo stesso viziato e carpito dai convenuti con raggiri e dolo. Aveva, infine, chiesto che fosse accertato il nesso di causalità tra il carcinoma e il fumo costante di sigarette e che pertanto condannasse i convenuti al risarcimento del danno subito”.
 
Il Tribunale di Roma rigettò la domanda e la decisione fu poi confermata La decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 396 del 21 gennaio 2014.
 
La Corte ha ritenuto incentrare l’esame del gravame sulla manifesta insussistenza del nesso di causa fra le pretese condotte illegittime dei convenuti ed il danno, alla stregua dell’individuazione del principio di diritto della causa prossima di rilievo. Ha evidenziato la corte che la dannosità del fumo costituisce da lunghissimo tempo dato di comune esperienza perché anche in Italia era conosciuta, dagli anni 70, la circostanza che l’inalazione da fumo fosse dannosa alla salute e provocasse il cancro, poteva ritenersi un dato di comune esperienza. Campagne pubblicitarie promosse da organizzazioni non lucrative lanciarono in quegli anni moniti di qualche risonanza. Pertanto la Corte ha ritenuto che la circostanza che il fumo faccia male alla salute è un fatto socialmente notorio, anche se per ragioni culturali, sociali o di costume il vizio del fumo era più accettato. Nò ritiene la Corte possa enfatizzarsi, per sostenere la pretesa risarcitoria.

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