Creare reddito con lavori saltuari è il tempo della Gig economy - QdS

Creare reddito con lavori saltuari è il tempo della Gig economy

Elio Sofia

Creare reddito con lavori saltuari è il tempo della Gig economy

martedì 19 Giugno 2018

Istat, in costante crescita il lavoro accessorio: da 100.000 a 1,8 milioni le persone coinvolte in sei anni. Gli esempi più conosciuti: consegna di cibo a domicilio e affitti di case o auto 

CATANIA – Una nuova forma di economia si è ormai consolidata nel variegato mondo del mercato tecnologico e dei suoi lavoratori; è la cosiddetta Gig economy che letteralmente significa integrare il proprio reddito, guadagnarsi da vivere facendo lavori saltuari, senza vincolo contrattuale e solo quando viene richiesto o quando si da la propria disponibilità.


Il lavoratore della gig economy spezzetta il proprio lavoro in singole prestazioni che possono essere di pochi minuti o di una giornata intera e la retribuzione relativa si riferisce a questa sola prestazione. Esempi tipici di questa nuova e variegata forma di lavoretti sono le consegne a domicilio di cibo, l’affitto di una camera della propria casa o l’uso della propria auto come servizio taxi su richiesta.


L’uso di internet e delle app dedicate ha implementato la diffusione del fenomeno mettendo in contatto domanda e offerta e decretando il successo di piattaforme come Airbnb, Uber e di tutte quelle che si occupano di food delivery.


Il termine Gig economy nasce agli inizi del 900 nell’ambiente della musica Jazz come contrazione della parola inglese engagement che sta ad indicare l’ingaggio saltuario del musicista per una serata.
 
Gli italiani operativi nella gig economy sono orami tra i 700mila e il milione secondo una indagine realizzata dalla fondazione De Benedetti insieme all’Inps con una presenza del 50 per cento di donne e di solo il 3 per cento di immigrati; per 150 – 200mila lavoratori si tratta dell’unica fonte di reddito e invece per almeno 350mila persone di un lavoro con il quale si arrotondano i propri altri introiti.


Solitamente il lavoro è mediato da una piattaforma digitale dove un algoritmo mette in contatto in tempo reale offerta e domanda di prestazione di una classe di lavoratori considerati autonomi, che però in effetti tali non sono e non trovano al momento alcuna collocazione tra le formule a tutela dei diritti e della sicurezza del lavoro. Il gig worker tipo ha una età vicina o poco sopra i 30 anni nel 62% dei casi, guadagna spesso fino a un massimo di 50 euro mensili (65%) e si è fermato in oltre la metà dei casi alla licenza media superiore (60%).
 
In Italia l’indagine sul mercato del lavoro dell’Istat del 2017 conferma la crescita continua e rapida di quello che viene definito “lavoro accessorio”: le persone coinvolte erano meno di 100.000 prima del 2010, diventate 215.000 nel 2011 e arrivate a quasi un milione e 800.000 nel 2016. L’Istat nota che nell’arco di cinque anni, dal 2012 al 2016, il numero di datori di lavoro che richiedono questo lavoro accessorio si è moltiplicato per quattro e quello dei rapporti di lavoro per cinque. Il valore registrato dalle statistiche ufficiali è stato di un miliardo di euro. 


Un gig worker su quattro (il 26%) risulta dipendente a tempo pieno, contro il 22% degli studenti e il 14% dei disoccupati. Esce indebolita anche la tesi della libertà di scelta tra più portali, perché nel 46% dei casi le entrate arrivano da un’unica collaborazione.
 
Sempre più insistenti sono le richieste di tutele e di regolamentazione del fenomeno che ha di molto anticipato la capacità organizzativa dei legislatori a livello internazionale; a seguito di numerosi scioperi e di qualche gravoso incidente (l’ultimo a Milano con protagonista un delivery boy di Just Eat, finito sotto il tram, al quale è sta amputata una gamba) qualcosa finalmente si sta muovendo per quanto riguarda la tutela di questi nuovi lavoratori in termini di salario minimo e di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Secondo il giuslavorista Pietro Ichino, protagonista alla fine della passata legislatura di una proposta di legge su questo fenomeno “Occorre prevedere che il titolare della piattaforma debba interfacciarsi con l’Inps e pagare le retribuzioni rispettando un minimo retributivo e una contribuzione minima essenziale in campo contributivo e antiinfortunistico”.

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