Pesca: scomparso l'ultimo rais della Mattanza - QdS

Pesca: scomparso l’ultimo rais della Mattanza

Giuseppe Lazzaro Danzuso

Pesca: scomparso l’ultimo rais della Mattanza

sabato 21 Luglio 2018

Gioacchino Cataldo, prima di morire. è tornato nella sua Favignana. Era il glorioso superstite di quell'industria delle tonnare che fino alla fine dell'Ottocento era stata la maggiore dell'Isola e lui stesso era stato inserito tra i "Tesori Umani Viventi" del Registro delle Eredità Immateriali

Aveva compiuto 77 anni il 24 maggio e una malattia implacabile se l’è portato via in pochi mesi.
 
Quando l’avevo conosciuto, nel 1986, Gioacchino Cataldo, l’ultimo rais della mattanza del tonno, messa al bando nel 2007, era alto due metri e pesava centotrenta chili, occhi, capelli e barba neri come la pece.
 
In mare, faceva venire in mente l’Ulisse di Joyce:
 
"La brezza gli caracollava intorno, brezze mordenti e frizzanti.
Eccole le onde. I cavalli marini biancocriniti,
ribelli al morso, imbrigliati di lucidi venti".
 
A metà degli anni Ottanta, da poco era rientrato nella sua Favignana dopo il periodo trascorso a lavorare come operaio a Sindelfingen, in Germania, a costruire automobili. E aveva ripreso il suo posto d’onore nella chiurma dei tonnaroti: crocc’a menzu insieme con l’inseparabile Clemente Ventrone.
 
L’occísa la chiamavano, i farátici, la mattanza. E a una guerra la paragonò Jachínu, quando lo incontrai la prima volta: "i tonni muoiono, noi campiamo" mi disse con quella sua voce afona, curiosa in un gigante di più di due metri.
 
La tonnara era un’enorme trappola di reti edificata in mesi di paziente lavoro. Le carvane di tonni spinti dall’impulso irresistibile della procreazione, giungevano dall’Atlantico nelle acque calde del Mediterraneo e, costeggiando Favignana e Levanzo, venivano intercettati dalle reti. Così quel dio-pesce finiva con l’immolarsi per amore: dare la vita e poi morire.
 
"Io uccido a destra, Clemente a sinistra" mi aveva detto Jachinu quando, con quel grande fotografo scomparso che fu Eugenio Zinna, eravamo andati a Favignana per realizzare un libro sulla tradizionale pesca del tonno.
 
Poi li avevo visti tirare su dal mare – come nella foto scattata allora da Zinna – tonni pesanti fino a mezza tonnellata che menavano terribili colpi di coda.
 
Nel momento della mattanza le reti venivano tirate sulle barche e i tonni emergevano: "Spara ‘a tunnina!" e cominciava il carosello di code, pinne dorsali e spruzzi d’acqua insanguinata. Poi i tonnaroti si mettevano all’opera: le squadre erano di otto persone, due al centro con piccoli arpioni di mezzo metro e, via via che ci si allontanava, gli altri sei, con uncini sempre più lunghi, fino a quattro metri.
 
Gli ultimi catturavano il pesce portandolo verso il centro della formazione, mentre ai primi due, i crocch’a menzu, i più vigorosi, toccava lo sforzo e il rischio più grande: trarre a bordo l’enorme bestia.
Era quello, una volta, il posto di Jachínu, prima di diventare ráis.
 
Ma lo ricordo anche in piedi su una muciára candida, al centro di un ampio quadrilatero di barconi neri, con la voce del cialomatúri pareva il richiamo del muezzin dal minareto e il coro dei farátici, i tonnaroti, a rispondere.
 
Era diverso dagli altri faratici, Jachinu: non solo perché alto e imponente, ma per la pronuncia senza inflessioni, la mente acutissima e lo spirito d’osservazione che lasciava sbalorditi persino gli scienziati.
 
Una leggenda vivente, Gioacchino Cataldo: l’ultimo, glorioso, esponente di quella cultura delle tonnare che fino alla fine dell’Ottocento era stata dominante in Sicilia. Lungo la costa dell’Isola, allora, i marfaraggi erano più di cento: un’industria enorme che sfruttava un diritto esclusivo di pesca risalente al tempo di Carlo Quinto.
 
Dal Tonno dipendeva la floridezza dell’economia siciliana. Al punto da far nascere decine di proverbi e canzoni: "Dissi lu tunnu, chi sugnu ‘nfatatu ca tutti stati a spiranza di mia?".
 
A sopravvivere, tra le tonnare fu, fino al 2006, la sola Favignana. E Gioacchino fu l’ultimo rais, il capo dei pescatori. Ma anche colui il quale non smetteva mai di tramandare le tradizioni sul tonno, foss’anche soltanto la maniera di cucinarlo.
Un impegno che gli venne riconosciuto con l’inserimento tra i "Tesori Umani Viventi" del Registro delle Eredità Immateriali della Sicilia.
 
Rendiamogli onore, oggi, difendendo la Tonnara costruita dall’architetto Damiano Almeyda per gli imprenditori palermitani Florio, che eressero anche un palazzo, oggi sede del Comune.
 
Rendiamogli onore ricordando la storia delle mattanze la grande industria che attorno a esse girava, garantendo il sostentamento di migliaia di famiglie.
 
Ricordiamo i Florio, che avevano comprato le isole e il diritto esclusivo di pesca dai banchieri genovesi Pallavicini-Rusconi, che, a loro volta, li avevano avuti da Re Filippo IV di Spagna in pagamento di un debito.
 
Portiamo nelle scuole, se davvero vogliamo mantenere la nostra Identità Siciliana, la meravigliosa epopea delle Tonnare. Parlando degli stabilimenti in cui, dopo la mattanza, venivano inscatolati i diversi tagli: il tonno, la zona dorsale, il tarantello, cioè i fianchi e la coda, e la ventresca, la morbida cavità addominale, la più gustosa, che giungeva sulle tavole dei Re.
 
Raccontiamo ai nostri figli e nipoti la storia di Gioacchino Cataldo, il Rais, che, come hanno scritto i figli sulla sua pagina Facebook, "saluta la sua Favignana e se va portando con sé un pezzo di storia di questa bellissima isola che lui ha amato con tutto il suo cuore".
 
 

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