Lavoro nero: 6,3 mld di euro sottratti allo Stato - QdS

Lavoro nero: 6,3 mld di euro sottratti allo Stato

Paola Giordano

Lavoro nero: 6,3 mld di euro sottratti allo Stato

giovedì 02 Agosto 2018

Cgia Mestre: in Sicilia non solo record di disoccupazione (21,5% generale e 52,9% giovanile) ma anche 312.000 lavoratori invisibili alle Istituzioni, sfruttati quotidianamente e senza garanzie. Il sommerso nell’Isola vale l’8,1% del Pil regionale. GdF e ispettori come Davide contro Golia 

PALERMO – Che il lavoro in Sicilia sia “invisibile” non è, ahinoi, una novità. Non solo perché l’Isola vanta tassi di disoccupazione generale e giovanile (arrivati rispettivamente al 21,5 e 52,9 per cento stando ai dati Eurostat relativi al 2017) tra i più alti d’Italia e d’Europa. Ma anche perché una grossa fetta di quello che c’è non è ben “visibile”. Per lo meno per Inps, Inail e fisco.
 
La fotografia scattata dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre restituisce, infatti, l’entità di un fenomeno complesso che da decenni affligge la nostra Regione: quello, appunto, del lavoro “sommerso”, prodotto cioè in assenza di un regolare contratto che preveda il versamento dei contributi e gli adempimenti previdenziale previsti dalla legge. Quello, insomma, del lavoro “nero”.
 
 
Una piaga il cui peso sul prodotto interno lordo regionale ammonta addirittura all’8,1 per cento, a fronte di una media italiana del 5,2 per cento.
 
La cospicua incidenza percentuale dell’economia sommersa su quella ufficiale registrata in Sicilia è la terza più alta d’Italia: un record poco invidiabile, insomma. Peggio di noi solo quella della Calabria (9,9 per cento) e quella della Campania (8,8 per cento). Con numeri così sconfortanti le regioni meridionali si confermano distanti anni luce dai più virtuosi territori del Nord Italia: qui, infatti, la rilevanza del valore aggiunto da lavoro irregolare sul Pil è nettamente più bassa, attestandosi in media al 4,1 per cento e raggiungendo in Veneto e in Lombardia, rispettivamente al 3,8 e al 3,9 per cento, le percentuali più basse. Vale a dire meno della metà rispetto a quella siciliana.
 
A recarsi nei cantieri, nei campi, nelle aziende dell’Isola, ogni giorno, ci sono dunque (anche) ben 312.600 lavoratori in nero. Un numero che equivale a più del 10 per cento degli oltre 3 milioni 305 mila occupati irregolari in tutta Italia e che rappresenta la quarta cifra più alta tra le regioni della Penisola: la Campania è nel gradino più basso del podio con i suoi 382.900 lavoratori impiegati illegalmente; il Lazio, che di occupati irregolari ne conta 411.700, è seconda, e la Lombardia, avendo all’attivo ben 484.700 lavoratori “invisibili”, svetta nell’infelice classifica.
 
“Nel Sud, dove la presenza è diffusissima – afferma il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo – possiamo affermare che il sommerso è anche un vero e proprio ammortizzatore sociale. Sia chiaro, nessuno vuole giustificare il lavoro nero legato a doppio filo con forme inaccettabili di caporalato, sfruttamento e mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro. Tuttavia, quando queste forme di irregolarità non sono legate ad attività controllate dalle organizzazioni criminali o alle fattispecie appena richiamate, costituiscono, in momenti difficili, un paracadute per molti disoccupati o pensionati che altrimenti non saprebbero come conciliare il pranzo con la cena”.
 
Conti alla mano, l’esercito dei lavoratori irregolari genera nella Penisola un fatturato pari a quasi 77,4 miliardi di euro, 6,3 dei quali sono prodotti dagli oltre 310.000 lavoratori irregolari siciliani. Mica bruscolini. Anche in questo caso la Sicilia conquista la medaglia di legno nella graduatoria nazionale: i lavoratori irregolari lumbard producono 12,6 miliardi di euro, quelli della Regione Lazio quasi 8,9 e i cugini calabresi 8,1. La Regione più “improduttiva” è il Molise che con i suoi 16.700 occupati irregolari genera un giro d’affari poco “pulito” di soli 210 milioni di euro.

A mancare all’appello nelle casse dello Stato sono, invece, complessivamente più di 42,6 miliardi. La Sicilia contribuisce in modo non indifferente a questo ammanco, sfiorando i 3,5 miliardi di imposte e contributi non versati, anche se le quote più cospicue di tasse evase dal lavoro irregolare appartengono alla Lombardia, che con i suoi quasi 7 miliardi di euro doppia la cifra isolana, al Lazio (4,9 miliardi) e alla Campania (poco meno di 4,5 miliardi).
 
Secondo il consuntivo reso noto dal Comando Regionale Sicilia della Guardia di Finanza in occasione delle celebrazioni del 244° anniversario della Fondazione del Corpo delle Fiamme Gialle, nel 2017 sono stati scoperti ben 779 datori di lavoro che facevano ricorso complessivamente a 4.102 lavoratori “irregolari e/o completamente in nero”. Un ottimo risultato che, però, non può e non deve essere l’unica arma nella lotta al lavoro illegale: bisogna intervenire a monte per affrontare il problema e non solo riporre le speranze nelle azioni investigative delle forze dell’ordine.
 
Senza adeguati controlli a tappeto che fungano da deterrente per i “furbetti” e, soprattutto, senza misure concrete che favoriscano l’occupazione, il mondo del lavoro siciliano è destinato a diventare sempre più “nero”. E dunque “invisibile”.
 

 
Contro il sommerso solo 126 ispettori per monitorare oltre 460 mila imprese
 
PALERMO – Di strumenti per contrastare i “furbetti” che impiegano personale in nero ce ne sarebbero tanti, primo fra tutti quello del controllo.
Il condizionale è d’obbligo perché l’Isola, con i suoi appena 126 ispettori del lavoro regionali, non possiede personale sufficiente a monitorare le 462.625 imprese iscritte nei registri delle Camere di commercio siciliane al 31 dicembre 2017.
Secondo i dati resi noti dall’assessorato regionale al Lavoro, nel capoluogo siciliano 5 ispettori devono controllare 96.898 aziende, vale a dire che ogni ispettore deve supervisionare 19.380 imprese. Una follia.
La situazione è drammatica anche nellle altre province. Nel trapanese, che ha all’attivo 46.764 imprese, sono presenti cinque ispettori, ognuno dei quali, in sostanza, deve sorvegliare 9.353 aziende.
A Catania, che di imprese ne ha 102.603, sono in 29 gli addetti alle ispezioni: ciascun ispettore ha sulle spalle la verifica di 3.538 imprese.
La provincia sullo Stretto, invece, conta 60.899 aziende in attività: ognuno dei 16 ispettori presenti deve occuparsi di esaminare 3.806 imprese. Per le 40.233 attività agrigentine ci sono invece 13 ispettori, ciascuno dei quali deve sobbarcarsi il controllo di 3.095 aziende.
Numeri meno drammatici – ma pur sempre drammatici – si riscontrano nelle province interne: a Caltanissetta, dove operano 25.383 imprese, gli ispettori sono 23 e devono occuparsi ognuno di 1.104 imprese; mentre ad Enna di controllori se ne contano 8 a fronte di 14.888 aziende, vale a dire 1.861 aziende per ogni ispettore.
Completano l’allarmante quadro Ragusa, con 7 ispettori per un totale di 36.474 imprese (ovvero 5.210 aziende per ispettore), e Siracusa, più “fortunata”, che di controllori del lavoro ne ha ben 20, ciascuno dei quali vigila su 1.924 attività imprenditoriali.
Di fronte ad una realtà, come quella siciliana, in cui non può essere garantito un controllo degno di questo nome a causa dell’esiguo numero di personale, i “furbetti” del lavoro possono dormire sonni tranquilli. E impuniti.
 

 
Renato Mason, segretario Cgia di Mestre: “Voucher? Errore toglierli. Vanno subito reintrodotti”
 
PALERMO – Abbassare le tasse e i contributi previdenziali, incentivare le misure dissuasive, ma anche reintrodurre i voucher: questi, secondo la Cgia di Mestre, sono gli ingredienti necessari per contrastare il sempre più dilagante fenomeno del lavoro in nero. Sono oltre tre i milioni di lavoratori, infatti, che tentano di sbancare il lunario attraverso proventi riconducibili a un’attività irregolare.
“I voucher – afferma il segretario della Cgia, Renato Mason – erano stati concepiti dal legislatore per far emergere i piccoli lavori in nero. Se in alcuni settori c’è stato un utilizzo del tutto ingiustificato di questo strumento, paradossalmente il problema dei voucher non è ascrivibile al loro eccessivo ricorso, ma, al contrario, per essere stati impiegati pochissimo in particolar modo al Sud, dove la disoccupazione è molto elevata e l’abusivismo e il sommerso hanno dimensioni molto preoccupanti. Eliminarli, quindi, è stato un errore. Pertanto, vanno assolutamente reintrodotti, in particolar modo nell’agricoltura, nel turismo, nei settori dove è forte la stagionalità e tra le micro imprese artigiane”.
Soppressi a marzo 2017 con le disposizioni del decreto legge n. 25, i cosiddetti buoni lavoro avevano un importo nominale di 10 euro comprendente la contribuzione a favore della gestione separata Inps (1,30 euro), quella in favore dell’Inail (0,70 euro) e una quota per la gestione del servizio (0,50 euro). I restanti 7,50 euro costituivano il compenso del lavoratore.
La loro reintroduzione, limitatamente ai settori agricoltura, turismo e lavori stagionali, è ora al vaglio del governo gialloverde.

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