Arte: morto Guccione, anima del Gruppo di Scicli - QdS

Arte: morto Guccione, anima del Gruppo di Scicli

Giuseppe Lazzaro Danzuso

Arte: morto Guccione, anima del Gruppo di Scicli

sabato 06 Ottobre 2018

Secondo Sgarbi è stato il più grande pittore degli ultimi cinquant'anni. L'amicizia con Gesualdo Bufalino e il culto del silenzio. L'esperienza "collocata tra il pollice, l’indice e il medio della mano destra". Le scene per la Norma del Centenario nel Teatro Bellini di Catania, gli orizzonti dei suoi quadri e la scelta "politica" di tornare in Sicilia quand'era all'apice della notorietà. Nel 2012 un docu-film sulla sua arte

Per Vittorio Sgarbi "è stato il più grande pittore dell’ultimo mezzo secolo: nessuno ha rappresentato meglio di lui l’essenza e il turbamento dell’uomo alla fine dell’Universo di valori dell’Occidente".
 
Piero Guccione, a 83 anni, ha lasciato quella Sicilia in cui, nel 1979, aveva deciso di tornare, andandosene per sempre.
 
In silenzio.
 
Quel silenzio tanto amato dal fondatore, con Franco Sarnari, del Gruppo di Scicli.
 
"A Scicli – aveva dichiarato nel 1981 in un’intervista al Tempo di Roma Renato Guttuso –  che è un paesino della Sicilia dove sono andati a vivere dei giovani artisti, Guccione e Sarnari, c’è una piccola scuola di pittori di cui l’Italia non sa nulla, di cui le Biennali non sanno niente, non vogliono saperne o non gliene importa niente di saperlo”.
 
Scriveva, della scelta di Guccione, Gesualdo Bufalino, suo grande amico: "Il suo rimpatrio in Sicilia e il suo chiudersi in un eremo di campagna, per raggiungere il quale occorre agli amici una mappa più astrusa che per dissotterrare il tesoro di un’isola di pirati, si spiega come ripudio di tutto quanto nella pittura è bava di mode e distrazione sentimentale".
 
 
Se mi è permesso un ricordo personale, c’ero stato in quell’eremo.
 
Ero entrato nello studio dopo aver intravisto, in quello della moglie Sonia Alvarez, un dipinto: lui che dormiva. Di fianco. Di spalle.
 
Nell’ambiente in cui lavorava c’erano il cielo e il mare. Del suo studio mi avevano colpito la luce, d’una qualità indefinibile, e il silenzio.
 
Fatto apposta per dipingere, quel luogo. E per raccontare.
 
Guccione parlava con lentezza.
 
Dell’esperienza "collocata tra il pollice, l’indice e il medio della mano destra".
 
Raccontava, ed era come se appiccicasse, a una a una, le parole nell’aria. E quelle prendevano forma, si espandevano. Assumevano peso e sostanza.
 
Significato.
 
Avevo conosciuto Guccione nel 1990, quando aveva cominciato a realizzare i magnifici bozzetti per le scenografie della "Norma" che sarebbe stata messa in scena dal Bellini di Catania l’anno dopo, in occasione del centenario del Teatro Massimo.
 
Era una delle sue città del cuore, Catania, dove aveva studiato per tre anni nell’Istituto d’Arte. E amava anche il suo teatro lirico.
 
Nel 2015 Guccione avrebbe rievocato, nella breve autobiografia curata da Marco Goldin, "gli avventurosi viaggi in treno, nel dopoguerra, fino a Catania dove mio padre", un sarto modicano appassionato di musica, "portava la famiglia ad assistere alle opere, quelle più amate, che il Teatro Massimo Bellini aveva ricominciato ad allestire: memorabile – per me ragazzo di dodici, tredici anni – una Norma con Maria Caniglia e un Gigli non più giovane, francamente inattendibile nel corpo di Pollione".
 
Già allora doveva esser nata in lui l’idea di quelle scene per il capolavoro belliniano, cupe eppure piene di vigore, di vita. Di colore.
 
"Di che colore sono gli occhi di Piero Guccione? – si chiedeva Bufalino in uno dei suoi scritti – Un filo invisibile corre, io suppongo, fra la mano che dipinge e la pupilla che la dirige: né la circostanza che un pittore abbia gli occhi celesti, grigi o castani, deve ritenersi priva d’una qualche oscura influenza sulle scelte della sua tavolozza. Guccione ha voluto puntare ogni moneta sull’assolutezza del cielo, della terra e del mare, nei loro sublimi punti d’attrito, gli orizzonti".
 
E descrivendo una delle sue ultime opere, "L’onda e la luna", dipinta tra il 2012 e il 2014, il critico Marco Goldin, puntava l’indice su "la linea di una sabbia calda, presa da un nero d’alghe che la cinge. E poi la piccola onda di una risacca del mattino e lievi manti d’acqua che in parata le si avvicinano dal largo del mare. Fino alla linea dell’orizzonte, sopra cui si sparge un’incantata luce tenue, dove l’azzurro sfuma in un giallo che tu diresti solo immaginato. Prima che sia quella lunga e lentissima risalita nel cielo, fino ad abbracciare il pallore di una luna che viene scomparendo".
 
Non a caso un altro critico, Maurizio Calvesi, definiva quella di Guccione “Poesia picta”.
 
Un magnifico ritratto cinematografico di Guccione, del regista Nunzio Massimo Nifosì, era stato presentato nel 2012 al Festival Internazionale del Film di Roma, al Festival del Cinema Italiano di Madrid e alla Biennale Arte Venezia.
 
"Piero Guccione, verso l’infinito" era il titolo di questo delicatissimo docu-film, un racconto per immagini, musica – il violoncello di Giovanni Sollima e brani di Franco Battiato – e, ancora una volta, silenzi.
 
Quelli dei luoghi della Sicilia cari all’artista: la campagna iblea, i candidi muretti a secco, i giganteschi e solitari carrubi, gli sconfinati azzurri di cielo e mare.
 
"Di Guccione – aveva spiegato Nifosì – ho sempre amato la capacità di dare evidenza a cose che i nostri occhi non riuscirebbero a vedere".
 
Personalmente, ho invece amato quella che Sgarbi aveva definito "Sciclitudine", la sua scelta "politica" di tornare in Sicilia quando era all’apice della notorietà e di animare, nella sua terra, nella sua città, un gruppo di pittori che facesse fiorire d’arte il territorio.
 
Gli dobbiamo grande riconoscenza.

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