I Comuni e le società partecipate clientelari - QdS

I Comuni e le società partecipate clientelari

I Comuni e le società partecipate clientelari

giovedì 13 Dicembre 2018

Nel Sud Italia e in Sicilia un gran numero di realtà e una parte di dipendenti inutili Negli anni sono diventate serbatoi in cui la cattiva politica ha piazzato parenti e amici. Con il Dlgs 100/2017 Enti locali obbligati a razionalizzare tagliando i soggetti inutili

PALERMO – I primi risultati della razionalizzazione delle società partecipate comunali fanno ben sperare, ma non è ancora tempo di cantare vittoria. Delle 5.374 società attive in tutta la Penisola nel 2015 – dunque prima della Riforma della Pubblica amministrazione targata Marianna Madia che, tra le altre cose, ha individuato i criteri qualitativi e quantitativi attraverso i quali rivedere la giungla delle società a partecipazione pubblica – oggi se ne contano 4.313: il 20 per cento in meno.
 
È questo il quadro che emerge dall’indagine condotta a livello nazionale dall’Istituto per la finanza e l’economia locale (Ifel). E non è tutto: a calare, nel complesso, sono anche le partecipazioni comunali. Si è infatti passati dalle 127.262 del 2015 alle 91.966 del 2018, con un decremento del 27,7 per cento. Nel dettaglio, però, si evince che mentre si sono ridotte del 46,1 per cento le partecipazioni indirette – quelle cioè che godono di una quota di partecipazione in una società per il tramite di un’altra cui si partecipa direttamente – sono aumentate del 47,8 per cento quelle dirette.
 
Ad essere cambiata è dunque la tipologia di partecipazione, “a conferma – sottolinea l’Ifel – della realizzazione di processi di concentrazione delle partecipazioni e di rafforzamento dei controlli”.
 
Il report si limita a ripartire le 4.313 società partecipate comunali per macro-area: il Settentrione la fa da padrone con ben 2.520 società all’attivo, equivalenti al 58,4 per cento del totale; seguono le 918 realtà sparse tra il Mezzogiorno e le Isole e, infine, gli 875 soggetti distribuiti al Centro.
 
Per avere contezza dell’ingente schiera di partecipate siciliane bisogna però guardare all’ultimo report dell’Istat, fermo in ogni caso all’anno 2015: da esso emerge che l’Isola annovera ben 282 aziende all’interno delle quali sono assunti ben 25.000 addetti. Vale a dire in media 91 per ogni realtà. Si tratta di uno dei valori tra i più alti d’Italia, secondo soltanto a Lazio (604), Piemonte (127) e seppur di poco a Toscana (95).
 
Inutile sottolineare come questo sistema sia stato utilizzato dalla cattiva politica come una sorta di gallina dalle uova d’oro, un serbatoio ingente di voti in cui piazzare soggetti utili per questa o quella tornata elettorale. E anche per questo molte volte, all’interno delle partecipate, i conti hanno fatto fatica a quadrare.
 
Il fatto, però, è che con l’entrata in vigore del Dlgs. 118/2011 queste realtà si sono ritrovate a dover armonizzare il proprio sistema contabile con quello degli Enti locali da cui dipendono. E lì i nodi sono venuti al pettine.
 
Lo dimostra anche la recente bacchettata impartita dalla Corte dei Conti isolana nella Relazione sul rendiconto 2017 della Regione siciliana: qui i magistrati contabili hanno confermato, nero su bianco che “continuano a non trovare corretta attuazione i nuovi principi dell’armonizzazione contabile” anche per la “mancata applicazione delle previsioni dell’art. 11, comma 6, lett. j, del decreto legislativo 118/2011, che impone di rilevare i rapporti economici e patrimoniali con le società partecipate, con la conseguenza che l’inadempimento ha l’effetto di non consentire di individuare disallineamenti contabili, e, ancora peggio, perdite, che le stesse possono generare durante la loro attività”.
 
“Occorre infatti evidenziare – proseguono dalla Corte dei Conti – che le operazioni di conciliazione dei rapporti creditori e debitori tra l’Ente e gli organismi partecipati presentano la duplice finalità di mirare a rilevare l’eventuale emersione di passività non conosciute, che possono costituire un rilevante fattore di rischio per gli equilibri di bilancio, e agevolare nel contempo il consolidamento con i bilanci delle società partecipate”.
 
Razionalizzare le società partecipate, mettendo per prima cosa in ordine i conti delle stesse, deve dunque essere una priorità per le Amministrazioni locali, che rischiano altrimenti di andare incontro a brutte sorprese e a pericolosi squilibri economico-finanziari.
 
 
Abbiamo chiesto un commento a Mario Emanuele Alvano, segretario generale di AnciSicilia
 
Per far luce sulla giungla delle partecipate siciliane abbiamo interpellato il segretario generale di AnciSicilia, Mario Emanuele Alvano.
 
Qual è la situazione delle partecipate in Sicilia?
“L’elemento fondamentale da cui partire per una valutazione di merito è quello che, con l’armonizzazione contabile, il rapporto tra gli Enti locali e le loro partecipate è profondamente modificato in considerazione della previsione del bilancio consolidato. Adesso è bene ragionare in termini di risultato economico unitario del ‘gruppo Ente locale’. Il legislatore, per altro verso, ha imposto un percorso di ricognizione e ridimensionamento delle partecipazioni degli Enti locali. In Sicilia come in altre parti d’Italia il panorama delle società partecipate non può essere valutato in astratto, perché abbiamo esempi assolutamente positivi e altri particolarmente negativi: la differenza la fanno le singole realtà, gli amministratori, le logiche che stanno dietro alle società partecipate. In alcuni casi la gestione di determinati servizi tramite società partecipata, pensiamo al trasporto pubblico per esempio, può essere una gestione più efficace anche perché essendo orientata a un singolo settore, può raggiungere meglio alcuni risultati”.
 
Gli ultimi dati Istat disponibili evidenziano che in media, in Sicilia, si contano 91 dipendenti per società: uno dei rapporti più alti d’Italia. Come spiega questi numeri?
“È chiaro che in Sicilia si sconta un dato generale sulle politiche del personale che riguarda tanto gli Enti locali quanto le partecipate quanto ancora i Consorzi di Comuni: vi è stata una scelta della politica orientata ad offrire maggiori opportunità lavorative in questi ambiti. È una scelta che in alcuni casi ha portato a una serie di conseguenze negative di indubbia evidenza. Siamo di fronte a una decisione che ha orientato le politiche pubbliche determinando un dato sproporzionato rispetto ad altre parti d’Italia”.
 
Qual è a suo avviso la percezione che il cittadino ha delle società partecipate?
“Spesso la partecipata è agli occhi del cittadino il vero erogatore del servizio, in particolare nelle grandi e medie città. Si valuta l’Ente locale anche per la prestazione che passa tramite le partecipate, oltre che rispetto all’azione dell’Ente locale nell’azienda stessa. Per esempio, la qualità del trasporto urbano non dipende direttamente dall’Ente locale, ma dal soggetto che gestisce questo servizio. Stesso discorso dicasi in alcuni casi per la manutenzione stradale o per alcune aziende del gas”.
 

 
Focus normativo
 
Razionalizzazione e riduzione dell’immensa platea delle partecipate: è quanto previsto dal Dlgs 175/2016 – a seguito della sentenza n. 251/2016 della Corte costituzionale corretto con il Dlgs. 100/2017 – il quale costituisce l’attuazione di alcuni precetti della cosiddetta Riforma Madia (L 124/2015).
 
Secondo la disposizione promulgata nel 2016 non sono consentite le società prive di dipendenti o che abbiano un numero di impiegati inferiore a quelo degli amministratori; quelle che nella media dell’ultimo triennio hanno registrato un fatturato sotto il milione di euro; quelle inattive che non hanno emesso fatture nell’ultimo anno; quelle che, all’interno dello stesso comune o area vasta, svolgono attività doppioni; quelle che negli utlimi cinque anni hanno fatto registrate quattro esercizi in perdita; quelle che svolgono attività non strettamente necessarie ai bisogni della collettività. La norma dispone che le società partecipate che non soddisfano contemporaneamente tali requisiti siano oggetto di fusione o soppressione, anche mediante la messa in liquidazione o la cessione.
 
Tra le principali modifiche introdotte dal decreto correttivo del 2017 ci sono la possibilità per le Pubbliche amministrazioni di avere partecipazioni in società che abbiano, come oggetto sociale, la produzione di energie rinnovabili; e quella per le università di costituire società per la gestione di aziende agricole con finalità didattiche. Il suddetto decreto prevede alcuni cambiamenti in materia di governance societaria: sono le stesse società a controllo pubblico a decidere, infatti, tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi, che al posto dell’amministratore unico vi sia un consiglio di amministrazione composto da tre a cinque membri.
 
Tali disposizioni non si applicano alle società che, come oggetto sociale esclusivo, hanno la gestione dei fondi europei per conto di Stato e regioni o la realizzazione di progetti di ricerca finanziati dall’Unione Europea. Per gli spin-off e le start-up universitarie il decreto si applica decorsi cinque anni dalla loro costituzione.

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