Ucciso a coltellate a Palermo, in carcere moglie e figli - QdS

Ucciso a coltellate a Palermo, in carcere moglie e figli

redazione

Ucciso a coltellate a Palermo, in carcere moglie e figli

lunedì 17 Dicembre 2018

Lo ha deciso il Gip per Salvatrice Spataro, e i suoi due figli maggiori, tutti, rei confessi dell'assassinio di Pietro Ferrere, ucciso nel sonno con trentatrè colpi di tre diversi coltelli, due da macellaio. La tesi dell'avvocato difensore e le considerazioni di una psichiatra

Il Gip di Palermo ha disposto la custodia cautelare in carcere per Salvatrice Spataro, 45 anni, e i figli Vittorio e Mario Ferrera di 21 e 20 anni, rei confessi dell’omicidio di Pietro Ferrera, marito e padre, ucciso la notte tra venerdì e sabato nell’abitazione in via Falsomiele a Palermo con trentatré colpi di tre diversi coltelli, due dei quali da macellaio.
 
Secondo quanto raccontato dai tre, la vittima sarebbe stato un "padre padrone" ed è stata barbaramente trucidata dopo l’ennesima lite con la moglie dopo una richiesta di un rapporto sessuale. I figli hanno poi raccontato di botte, insulti e umiliazioni.
 
Ma nei giorni scorsi la polizia aveva sottolineato come non vi fossero riscontri: né denunce, né dimostrazioni delle violenze dell’uomo, un ex militare che gestiva un bar.
 
L’avvocato dei tre imputati, Maria Antonietta Falco, ha puntato la linea difensiva proprio sulle accuse a Pietro Ferrera: "Bisogna inserire quanto è successo in una cultura medievale dove le parole parità, divorzio, separazione non esistono" ha detto, giudicando "sconvolgenti" i racconti dei tre, che, ha detto: "Possono riassumersi in tre parole: terrore, disperazione e violenza".
 
L’avvocato ha sottolineato che "Il pm Gianluca De Leo ha dimostrato una grande sensibilità nel corso degli interrogatori" spiegando che "Quanto è successo in quella casa in tutti questi anni è stato terribile".
 
"E’ incredibile che tra quattro mura possano avvenire fatti di questa violenza" senza specificare se si trattasse di quanto raccontato o del brutale omicidio dell’uomo.
 
Subito dopo il delitto la psichiatra Santa Raspanti, dirigente medico all’Asp a Palermo, aveva sottolineato: "Ciò che emerge è un’idea di vendetta tribale all’interno di un luogo, come il nucleo familiare, che nell’immaginario comune, dovrebbe alimentare sentimenti di amore e solidarietà. Ecco, invece, una madre che abbandonati i consueti ruoli di mediatrice amorevole, metabolizzatore di conflitti, si erge ad artefice e primo attore dell’uccisione".
 
L’avvocato Falco ha cercato di spiegare, in una serie di dichiarazioni alle agenzie di stampa, che la donna aveva cercato "in tutti questi anni di resistere e proteggere i figli, anche loro vittime dell’uomo per questo mai denunciato".
 
"Ma la misura – ha concluso – era davvero colma nelle ultime settimane tanto che il figlio aveva incontrato una poliziotta al commissariato Brancaccio per presentare denuncia. Farò il possibile per ottenere la loro scarcerazione".
 
Nei giorni scorsi il capo della Squadra Mobile di Palermo Rodolfo Ruperti aveva detto ai giornalisti che non c’era traccia "di interventi di volanti, di referti dei pronto soccorso; nulla, se non una presa di contatto il giorno prima del delitto da parte di un figlio della signora con ufficiali di pg ai quali aveva raccontato di maltrattamenti subiti, prendendo un appuntamento per oggi, per conto della madre".
 
L’assassinio è stato commesso inoltre mentre gli altri due figli minorenni erano ospitati dalla nonna e questo, subito dopo il delitto, aveva spinto a pensare a una premeditazione.
 
"I fatti per come vengono narrati – aveva commentato nei giorni scorsi con alcune dichiarazioni alle agenzie di stampa la dottoressa Raspanti – racchiudono in sè l’epopea del gesto vendicatore condiviso e forse anche preparato visto l’allontanamento dei figli minori, al fine di concludere nel sangue una vicenda di convivenza familiare che per avere un tale epilogo deve essersi nutrita e alimentata nell’odio e nella rabbia".
 
Ad avviso della psichiatra "nessuna altra possibilità è stata pensata e decisa dai tre, forse per farsi coraggio, forse per diluire la colpa, forse per non avere ripensamenti: hanno, secondo le indagini, colpito, dilaniando il corpo e mettendo così la parola fine a una vicenda che per loro non aveva più alcuna ragione di esistere".
 
A i tre, però,  la Procura non ha contestato l’aggravante della premeditazione.
 

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