Costi standard non macelleria sociale - QdS

Costi standard non macelleria sociale

Carlo Alberto Tregua

Costi standard non macelleria sociale

venerdì 05 Marzo 2010

Tagliare le tasse, tagliare gli sprechi

Dice il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che la spesa pubblica non si può tagliare, per evitare di fare macelleria sociale. La sua dichiarazione sottintende che, se fosse costretto a tagliare la spesa pubblica, dovrebbe partire da quella sociale. Il che è una pura e semplice menzogna. Infatti, il suo ammontare complessivo di oltre 800 miliardi di euro, più del 50 per cento del Pil, ha in pancia una serie di sprechi, di spese inutili, di compensi superflui che hanno il solo scopo di favorire i clientes.
Non solo, ma quello che si chiama il costo della politica, cioè compensi per consiglieri regionali, provinciali e comunali, rimborsi spese, diarie e altre voci costituiscono vere e proprie spese superflue, che dovrebbero essere tagliate senza alcuna esitazione.
Vi è poi tutto il comparto della sanità, la cui spesa supera un ottavo di quella pubblica, cioè 108 miliardi che, se tagliata del 3 per cento, porterebbe a un risparmio di oltre tre miliardi.

Nel bilancio dello Stato, sol che vi si guardi dentro con competenza e professionalità, le spese dannose da amputare sono tante, ma bisogna avere il prestigio morale e la forza politica per procedere a eliminare le spese clientelari e quelle parassitarie, che soddisfano solo la famelicità di politici e corporazioni.
Ritorniamo sul taglio della spesa pubblica, perché è da lì che bisogna partire, per procedere conseguentemente a due operazioni strategiche: investire in infrastrutture una parte dei risparmi  e portare a diminuzione del debito pubblico l’altra parte.
In qualunque bilancio, l’intervento tecnico-professionale, quando si vuole razionalizzare la spesa, è possibile, con accorta  manovra, che non tagli con una linea, bensì con una sinusoide: si può abbassare mediamente il totale di almeno il cinque per cento. Tradotto in cifre, significa un risparmio di 40 miliardi, quanto servirebbe, per altri versi, per abolire l’Irap.  Non si capisce perché questo Governo e Berlusconi in prima persona, che hanno promesso con il loro programma elettorale del 2008 di fare le riforme, non le stiano facendo. Fra le riforme, quella primaria riguarda il riordino della spesa che per alcuni versi può anche essere impopolare.

 
L’altra grande riforma è il riordino delle norme, dei diversi livelli. è stato creato apposta il ministero per la Semplificazione normativa, che però ancora ha partorito il classico topolino, perché la legge denominata taglia leggi di fatto ha operato solo su alcuni rami secchi ma non su norme che sono attive. Il ministero, a distanza di quasi due anni, non ha messo mano al riordino di norme per materia, in modo da evitare il caos, che consenta poi a enti, imprese e cittadini di rivolgersi al Tar, il quale ha la grande difficoltà di muoversi in meandri confusi, per cui le sentenze oscillano fra un punto e il suo opposto.
Non è chiaro per quale motivo il Governo non si muova decisamente nella direzione delle riforme strutturali, se non perché è vincolato e attanagliato dal democristianismo, cioè dalla pessima abitudine della cattiva politica di accontentare tutti per non perdere neanche un voto. L a buona politica, invece, disegna e realizza grandi progetti strategici e chiede il consenso sui risultati della propria attività. Risultati che arrivano.

Nel nostro Paese, vi è un sistema istituzionale complesso, per cui i progetti strategici del Governo debono essere confrontati con la conferenza delle Regioni, l’Anci (associazione dei Comuni) e l’Upi (associazione delle Province). Confronti che allungano in modo pernicioso i tempi e impediscono lo svolgimento di un’azione politica di interesse generale.
È giusto che il Governo ascolti  Regioni ed enti locali, ma alla fine ha il dovere di decidere con la prerogativa della legislazione esclusiva all’Esecutivo, seppur dando ascolto ai suggerimenti che arrivano dai territori. Per contro, poi, il Governo non intervenga in materie che invece sono di competenza di Regioni ed enti locali, creando problemi e rinviando le soluzioni.
Con l’attuazione del federalismo, se mai vedrà la luce, i limiti di intervento del Governo e quelli di Regioni ed enti locali dovrebbero essere marcati, secondo il noto principio della sussidiarietà, che è il fondamento dell’azione dell’Unione Europea.

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