Il cappio dell’euro sulla malapolitica - QdS

Il cappio dell’euro sulla malapolitica

Carlo Alberto Tregua

Il cappio dell’euro sulla malapolitica

martedì 28 Luglio 2009

Crisi salutare per cambiare registro

Come voce fuori dal coro, abbiamo salutato con favore l’arrivo della crisi. Essa ha provocato dolore e lacrime perché hanno sofferto i ceti bassi, deboli e bisognosi della società. Per contro, i ceti alti e, in primo luogo, quello politico, sono stati costretti a rivedere comportamenti scorretti e non idonei a una sana conduzione della Cosa pubblica.
In pratica, hanno dovuto ripensare a come tagliare quella parte di spesa corrente non essenziale, nella quale ha albergato (e alberga) un forte clientelismo. Consulenze, auto blu, personale non utile e altro sono spese finite nel mirino di chi ha dovuto tagliare.
Tutto ciò è avvenuto perché il cappio dell’euro, a distanza di quasi dieci anni, ha stretto alla gola le finanze pubbliche dello Stato, della Regione e degli enti locali.
L’euro stringe perché non è più possibile, per nessuno degli Stati membri, fare quell’operazione nefasta che si faceva prima del suo avvento e cioè la svalutazione della moneta nazionale.

Quando il portone della svalutazione è stato blindato, gli amministratori pubblici si sono dovuti preoccupare di come razionalizzare le spese all’interno di ogni palazzo. Così è cominciato questo lento processo di riorganizzazione che passa dal ridare efficienza a tutte le strutture. Efficienza significa qualità dei servizi e netta diminuzione dei loro costi.
Una parte di tali costi che vogliamo ulteriormente sottolineare riguarda quelli amministrativi, nel rapporto che c’è fra coloro che imbrattano carte e quelli che invece eseguono i servizi. Non è pensabile un servizio sociale a favore di anziani e malati in cui vi siano due assistenti che fanno il servizio esterno e 18 che stanno dentro gli uffici. Oppure al corpo dei vigili urbani di migliaia di componenti che invece di starsene in toto sulle strade, stanno rifugiati dietro le scrivanie. Il buon senso dovrebbe ritornare dopo sessant’anni, per ben spendere quei tributi che con tanta fatica i cittadini versano nelle casse dello Stato, di Regione ed Enti locali.

 
Nonostante il supposto rigore del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, la spesa corrente dello Stato è aumentata del cinque per cento, per un ammontare di circa 35 miliardi di euro, cifra corrispondente a una abbondante manovra.
È incomprensibile come una persona competente come il fiscalista di Pavia possa non solo danneggiare il Sud sottraendogli le risorse che per legge dovrebbero andare lì, ma non riuscire a ingabbiare la spesa corrente per evitare che, in presenza di minori entrate, aumentino le uscite.
Tremonti non è stato capace di bloccare tale spesa corrente con il risultato che per alimentarla ha dovuto aumentare il debito pubblico, che al 30 maggio 2009 è arrivato a 1752,1 mld €, col rischio di un ulteriore peggioramento della situazione da qui alla fine dell’anno. 

Altrettanto male si sono comportati le giunte regionali e gli oltre 8000 sindaci.Infatti, i bilanci delle venti Regioni, nel loro complesso, hanno aumentato i preventivi 2009 rispetto all’anno 2008. Peggio hanno fatto i Comuni che non sono stati capaci di tagliare per avere un preventivo 2009 nettamente inferiore a quello del 2008. Ma qui bisogna fare una distinzione.
La maggior parte delle Regioni del Nord si è comportata in modo virtuoso; la maggior parte delle Regioni meridionali si è comportata in modo vizioso, accumulando deficit insostenibili e provocando il commissariamento, per il settore della sanità, di Lazio, Campania e Molise, e a breve probabilmente di Calabria e Puglia. La Sicilia ha dato dimostrazione di invertire la tendenza ed è scampata, almeno per il momento, al commissariamento.
Perché tutto questo? Perché è noto che nel Sud il ceto politico si rivolge ai cittadini chiedendo loro il singolo voto, scambiato col singolo bisogno. Anziché proporre progetti strategici di alto profilo, che magari non accontentano le richieste spesse volte egoistiche, ma darebbero fiato allo sviluppo sociale e all’economia dei territori.
Siamo al redde rationem. La strada è irreversibile. Prima si convincono (i politici) che devono imboccare un percorso saggio e meglio sarà per tutti.

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