I pubblici dipendenti meritano gli stipendi? - QdS

I pubblici dipendenti meritano gli stipendi?

Carlo Alberto Tregua

I pubblici dipendenti meritano gli stipendi?

martedì 27 Ottobre 2015

Compensi proporzionali a rendimenti

La sentenza della Corte costituzionale del 24 giugno scorso, n. 178/2015, ha sanzionato i Governi che negli ultimi sei anni non hanno provveduto a rinnovare i Ccnl dei dipendenti pubblici. Dal che il Governo ha inserito nella Legge di Stabilità 2016 un ammontare di 200 milioni per soddisfare questa esigenza.
Dato che il rapporto tra stipendi e risultati del pubblico impiego non è mai stato misurato, non si può dire che lo stanziamento sia insufficiente: il Governo ha proposto un aumento mensile di dieci euro. Si tratta di una somma simbolica, contro la quale i sindacati hanno cominciato a tuonare. Ovviamente.
In effetti, l’aumento proposto è irrisorio, anche perché non vi sono risorse disponibili per fare star meglio quelli che già stanno discretamente o bene.
Ma c’è un’altra questione, ancora più importante e si tratta, come già richiamato, della valutazione relativa al rendimento del lavoro pubblico. Come è stato determinato il complessivo costo del lavoro? Nessuno lo sa.

I 4,3 milioni di dipendenti pubblici (3,3 mln diretti e 1 mln indiretti, assunti nelle società partecipate quasi sempre con metodo clientelare) costano molte decine di miliardi, tra stipendi, tredicesima, in qualche caso quattordicesima, ferie, malattie, Tfr, contributi e via elencando. Dove e quando è stato valutato congruo tale costo? Per ragioni di equità tra i cittadini, ogni spesa di denaro pubblico dev’essere rapportata al risultato. Il risultato sono i servizi prodotti dalla Pubblica amministrazione.
Non entriamo nelle regole tecniche che misurano tale rapporto tra costo e servizi, perché sono complesse. Ma possiamo rassicurarvi che esse esistono e consentono la misurabilità di ogni costo in relazione al servizio prodotto. Si fa nel settore privato, in modo più preciso nelle fabbriche.
La misurazione del rapporto tra costo e servizio consente di determinare quale sia il tasso di produttività del medesimo. Se, poniamo ad esempio, il costo di un servizio è 100 e il rendimento unitario è 1, significa che con 100 si possono produrre cento servizi. Se costasse 2, si produrrebbero cinquanta e non cento servizi e così via.
 

Prima di parlare di aumenti, il Governo dovrebbe dare disposizione all’Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazioni), l’Ente che contratta con i sindacati le regole e i contenuti economici dei Ccnl pubblici, di procedere alla valutazione tecnica del rendimento del costo del lavoro nel suo complesso e, conseguentemente, della sua produttività.
Solo dopo avere ottenuto questi parametri, che dovrebbero essere comparati con quelli del settore privato, si potrebbe entrare nella discussione di eventuali aumenti cui, ovviamente, dovrebbero seguire ulteriori servizi e miglioramento della produttività.
Continuando a parlare di stipendi ed aumenti senza paragonarli in alcun modo con l’altra mezza mela, cioè i servizi prodotti, si diffonde una forte iniquità tra i cittadini, essendo i dipendenti pubblici privilegiati, perché vengono pagati senza alcun raffronto con ciò che rendono.

In un periodo gravissimo di crisi, in cui bisognerebbe far tesoro di ogni euro speso nel settore pubblico, i criteri dianzi elencati dovrebbero essere la base per qualunque contrattazione. Invece, non sembra che sia così, perché di fronte alle proteste del sindacato per l’esiguo aumento proposto dal Governo, questo non ha reagito affermando senza ombra di dubbio che i 4,3 milioni di dipendenti pubblici sono pagati di più di quanto rendono.
Ora, vi è un altro principio di equità: ogni cittadino deve dare più di quanto riceve. Cos’è questa storia che i pubblici dipendenti chiedono senza prima avere fatto l’esame di coscienza di quanto hanno dato in proporzione a quanto chiedono?
E poi: cos’è questo ulteriore privilegio di lavorare il dieci per cento in meno di tutti gli altri cittadini? I pubblici dipendenti, infatti, hanno un orario settimanale di 36 ore contro le 40 ore di tutti gli altri cittadini-lavoratori. Non parliamo degli autonomi, che lavorano anche 50 o 60 ore settimanali.
Non sappiamo se il Governo vorrà imboccare la strada dell’equità. Ma senza di essa, non è credibile.

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