Clima, la Sicilia s'attacca... al Trump - QdS

Clima, la Sicilia s’attacca… al Trump

Rosario Battiato

Clima, la Sicilia s’attacca… al Trump

sabato 10 Giugno 2017

Altro che Usa, l’Isola è già fuori dall’Accordo di Parigi. Istat: falliti tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Città nell’occhio del ciclone tra alluvioni e disastri, ma i Comuni non pianificano

PALERMO – Nei giorni scorsi gli Stati Uniti hanno annunciato di volersi liberare dai vincoli degli accordi di Parigi e la Sicilia, nel suo piccolo, non vuole essere da meno. L’impegno preso dai 195 Paesi nella capitale francese, infatti, riguarda da vicino anche le città, le Regioni e gli enti locali che, anche se non sono parti dell’accordo, hanno un ruolo riconosciuto “nell’affrontare i cambiamenti climatici”, come riportato nel sito della Commissione europea dedicato alle azioni sul clima. E la Sicilia, in questo senso, sembra aver adottato da tempo la soluzione Trump: l’abbandono del campo.
Una passività, quella isolana, che ha provocato serie difficoltà nella partita più importante del millennio: la sfida col clima. Le conseguenze della sconfitta, che di anno in anno si presenta con un passivo sempre più pesante, sono talmente manifeste da non poter essere messe in discussione. Lo testimoniano gli eventi atmosferici che imperversano senza trovare un sistema di prevenzione adeguato (gli accordi di Parigi ribadiscono l’importanza di “scongiurare, minimizzare e affrontare le perdite e i danni associati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici”) e lasciano un conto salatissimo tra vittime e danni alle infrastrutture.
L’Istat ha recentemente diffuso i risultati regionali relativi ai “17 sustainable development goals” (Sdgs) che compongono l’Agenda 2030 e “si riferiscono a diversi ambiti dello sviluppo sociale, economico e ambientale”.
L’Isola migliora, rispetto al passato, ma nel confronto nazionale soffre in tutti i passaggi: crescita sostenibile, riduzione della povertà, accesso a sistemi energetici sostenibili, riduzione delle ineguaglianze, modelli sostenibili di produzione e consumo, gestione sostenibile dell’acqua.
Ad allargare il raggio di analisi non si sta meglio: consumo di suolo (tra il 7 e il 9%,  nella fascia delle Regioni divoratrici), raccolta rifiuti (differenziata al 20%, quasi trenta punti in meno della media nazionale), energia (consumi elettrici coperti da fer al 23,7%, 10 punti percentuali in meno rispetto al dato medio nazionale).
Insomma, la Sicilia non ha firmato gli accordi di Parigi, ma di certo ne sarebbe abbondantemente fuori proprio per quelli che sono i punti fondanti, come l’impegno per la riduzione delle emissioni di gas serra – l’Isola è coinvolta in due procedure di infrazione per superamento di particolato e biossido di azoto e ha soltanto di recente definito il piano di qualità dell’aria – o l’utilizzo di forme di energia sostenibile che, seppur di un certo valore, è ancora minimo rispetto all’effettivo potenziale che si potrebbe mettere in campo, ad esempio con la filiera del biogas.
Un’indifferenza che ha un peso specifico, perché, così come riportato sul sito della Commissione Europea dedicato ai cambiamenti climatici, “l’uomo esercita un’influenza crescente sul clima e sulla temperatura terrestre con attività come la combustione di combustibili fossili, la deforestazione e l’allevamento di bestiame” e a “queste attività aggiunge enormi quantità di gas serra a quelle naturalmente presenti nell’atmosfera, alimentando l’effetto serra e il riscaldamento globale”, provocando, come conseguenze, cambiamenti climatici dall’impatto devastante. Il peso specifico è chiaramente differente in rapporto alle varie regioni, ma fenomeni come le precipitazioni sempre più diffuse (in crescita in Sicilia tra il 2014 il 2015), la siccità e le ondate di calore sono evidenti conseguenze che addirittura “dovrebbero intensificarsi nei prossimi decenni”, come si legge sul sito ufficiale della Commissione Ue.
Dal 2013 al 2016 ci sono state 18 regioni colpite da 102 eventi estremi che hanno provocato alluvioni o fenomeni franosi, avviando l’apertura di 56 stati emergenziali, censiti dal sito governativo Italia Sicura. Dieci di questi fenomeni hanno riguardato la Sicilia con l’apertura di 5 stati emergenziali. Attualmente ne restano aperti 5 in totale (1 in Sicilia). Eventi di questo genere costano. Soltanto nel 2015 in Sicilia danni per 123,6 milioni di euro, ma il bilancio è decisamente più salato se prendiamo in considerazione i primi quindici anni del nuovo millennio. Nell’Isola si sono verificati 168 eventi legati al dissesto, con 58 vittime e danni per circa 4 miliardi di euro (dati protezione civile).
Il dettaglio di questa situazione così complicata è stato fornito dall’ultimo rapporto di Legambiente: “Le città alla sfida del clima”. Nello studio si è trattato il caso recente di Messina – alla fine di ottobre per 18 giorni senza acqua a causa di una frana che ha causato la rottura di una condotta –, ma anche i fatti del 2009, quando l’alluvione provocò la morte di 36 persone. In questi anni non sono mancati danni alle infrastrutture tra cui la ss 114 Orientale Sicura, la A18, ma anche la ferrovia Messina-Catania. E l’elenco potrebbe continuare ancora con l’elenco dei viadotti crollati o i 3.500 km (su 14 mila) di strade secondarie in dissesto o in grave difficoltà.
Il quadro riassuntivo dell’associazione del Cigno è abbastanza eloquente: “nell’ultimo anno la regione più colpita da alluvioni e trombe d’aria è stata senza dubbio la Sicilia che negli ultimi sette anni conta più di 25 eventi concentrati nel territorio siciliano”.
Una criticità che diventa problematica anche in rapporto al sistema di prevenzione in quanto il “70% dei paesi siciliani è a rischio e le amministrazioni ancora non sembrano aver posto le tematiche della prevenzione di alluvioni e frane tra le priorità del loro lavoro”.
 
L’altro report di Legambiente, Ecosistema a rischio 2016, registra che il 90% dei comuni ha abitazioni nelle aree golenali, negli alvei dei fiumi o in aree a rischio frana, il 54% delle amministrazioni presenta addirittura interi quartieri in zone a rischio, mentre il 67% ha edificato in tali aree strutture e fabbricati industriali, nel 29% dei casi sono presenti in zone esposte a pericolo anche strutture sensibili, come scuole e ospedali.
 

 
Bombe d’acqua e frane la Sicilia senza “ombrello”
 
PALERMO – Il territorio isolano è notoriamente a rischio e le abbondanti piogge degli ultimi anni non ne facilitano certo la gestione.
Secondo gli ultimi dati Ispra, ci sono 238 comuni interessati dalle due fasce più elevate della pericolosità da frana, mentre sono 360 i comuni inseriti nella fascia di pericolosità idraulica media (dati Ispra). Numeri importanti, anche se non bisogna fare confusione: il coinvolgimento di un comune non presuppone che l’intera superficie sia interessata dal rischio, perché è sufficiente anche soltanto un’area.
Complessivamente, infatti, il 5,8% del territorio isolano (1.487,1 kmq) è censito con pericolosità da frana (234 kmq nella fascia “molto elevata”). Di certo sono coinvolte le persone che vivono in quelle specifiche aree: 114.948 unità (2,3% del totale regionale) e ben 25mila si trovano nella fascia più elevata del rischio.
Un altro migliaio di kmq rientrano nelle tre fasce di rischio idraulico (258 kmq in quella più alta), coinvolgendo 80 mila siciliani (20mila nella più alta).
Dati che non hanno convinto le amministrazioni siciliane a fare di meglio. Lo spiega Legambiente: “si evidenzia dunque una gestione sbagliata del territorio e la scarsa considerazione delle aree considerate ad elevato rischio idrogeologico, la mancanza di adeguati sistemi di allertamento e piani di emergenza per mettere in salvo i cittadini (in Sicilia ce l’ha solo un comune su due, ndr), insieme ad un territorio che non è più in grado di ricevere precipitazioni così intense, sono i fattori che trasformato un violento temporale in tragedia”.
 

 
Accordo di Parigi, un patto che coinvolge gli enti locali
 
PALERMO – Nei giorni scorsi il Pd è stato in diverse piazze italiane per lanciare le fiaccolate in difesa degli accordi sul clima. L’iniziativa, seguita alla fuoriuscita degli Stati Uniti dal patto sul clima, è servita anche per fare il punto su quello che effettivamente richiedono gli accordi di Parigi.
Il trattato, definito nella capitale francese tra novembre e dicembre del 2015, è entrato in vigore un anno dopo, in seguito alla ratifica di 55 Paesi (era stato firmato da 195 Paesi).
Gli elementi chiave dell’accordo, riportati sul sito della Commissione Ue dedicato al tema, sono quattro e fanno riferimento al mantenimento dell’aumento medio della temperatura mondiale “ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali come obiettivo a lungo termine” e di limitarne comunque l’aumento a “1,5°C, dato che ciò ridurrebbe in misura significativa i rischi e gli impatti dei cambiamenti climatici”.
Inoltre hanno concordato di “fare in modo che le emissioni globali raggiungano il livello massimo al più presto possibile, pur riconoscendo che per i paesi in via di sviluppo occorrerà più tempo” e quindi di “procedere successivamente a rapide riduzioni in conformità con le soluzioni scientifiche più avanzate disponibili”.
In questo ambito tutti gli enti sono chiamati a fare la loro parte: città, regioni, enti locali. Questi ultimi, pur non essendo parti dell’accordo, sono invitati a intensificare i loro sforzi per ridurre le emissioni, costruire resilienza e ridurre la vulnerabilità degli effetti negativi dei cambiamenti climatici e mantenere e promuovere la cooperazione regionale e internazionale.

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