In Sicilia si va a pesca di plastica - QdS

In Sicilia si va a pesca di plastica

Rosario Battiato

In Sicilia si va a pesca di plastica

venerdì 13 Ottobre 2017

Mare “monstrum”: dalla depurazione assente al consumo di suolo, devastata la biodiversità del Mediterraneo. Danni milionari: per ripulire i litorali ogni Comune spende in media 200 mila euro

PALERMO – Pesca, petrolio, turismo e cemento sono da sempre emergenze costanti per il Mediterraneo, ma non sono le uniche. Ai quattro settori tradizionalmente più minacciosi per l’equilibrio ambientale delle acque isolane si aggiungono, infatti, l’allarme trasversale legato ai rifiuti, e in particolare alla plastica, e quello della mancata depurazione delle acque reflue. Una miscela esplosiva in grado di mettere a rischio una risorsa che, se gestita in maniera sostenibile, potrebbe ampliare il fatturato della blue economy dei prossimi anni.
Il settore della pesca regionale è determinante per l’economia di intere aree, ma non tutti operano nel rispetto della risorsa marina. Il Wwf, tramite il portale medtrends.org che monitora graficamente rotte e inquinamento del Mediterraneo, ha precisato che il settore italiano della pesca marittima è “dominato da imbarcazioni relativamente vecchie e di piccole dimensioni, disseminate lungo l’intera costa”.
In questo quadro, stando all’aggiornamento del 2012, la produzione ittica nazionale si è attestata sulle 208 mila tonnellate a fronte di quasi 11 mila pescherecci motorizzati per poco meno di 30 mila unità. È la terza flotta d’Europa e la Sicilia contribuisce in maniera determinante: 3 mila imbarcazioni si trovano nell’Isola che detiene, inoltre, anche il maggior numero di imbarcazioni artigianali (circa 2 mila), un dato che risulta essere il doppio di Sardegna (poco più di un migliaio) e Campania (957) che la seguono al secondo e terzo posto. “Le pratiche insostenibili di pesca ricadono sulla biodiversità e sulla rete trofica – spiegano dal Wwf –, poiché l’impatto dell’eccessivo sforzo di pesca e delle catture provoca effetti a cascata sull’ecosistema marino”.
Un’elaborazione grafica del Wwf, basata su segnali dell’International maritime organization (Ais) dai pescherecci superiori ai 12 metri, ha evidenziato che “le principali zone di pesca lungo le coste italiane sono il Mar Adriatico, il Canale di Sicilia e la costa del Mar Tirreno”.
Ma c’è di più, perché resta il gravissimo problema della pesca di frodo. Nell’ultimo rapporto di Legambiente sulle Ecomafie, rilasciato lo scorso luglio con dati 2016, a livello nazionale si sono registrati 122 mila controlli relativi ai prodotti ittici e agli attrezzi e reti per la pesca con più di 6 mila illeciti amministrativi, 4.708 infrazioni penali, 809 denunce e 768 sequestri penali e amministrativi. Complessivamente sono stati sequestrati 11.795 attrezzi e reti per la pesca.
Ad approfondire ulteriormente il ruolo della pesca di frodo, ci ha pensato il rapporto Mare Monstrum, sempre dell’associazione del Cigno, che ha censito 4.706 infrazioni accertate, 4.812 persone denunciate e più di mille sequestri effettuati. A guidare la classifica per regioni, confermando la propria posizione rispetto all’anno precedente, è ancora la Sicilia, con 975 infrazioni (un quinto del totale nazionale), 980 tra denunce e arresti e 133 sequestri. Nell’Isola ci sono stati circa 67 mila chilogrammi di prodotti ittici sequestrati tra pesce, caviale, salmone, tonno rosso, datteri, crostacei, molluschi e novellame.

Urbanizzazione e turismo insostenibile – Si tratta di due comparti collegati. Negli ultimi 65 anni, scrivono dal Wwf, la velocità dell’urbanizzazione delle linee di costa è “proceduta ad un ritmo di consumo di suolo di 10 km/anno, con un dato sostanzialmente analogo per le coste adriatica, tirrenica e delle due isole maggiori (Sicilia e Sardegna)”. Un’aggressione di cemento, legata anche a una percezione deviata del turismo sulla costa, che si collega al carico, in generale, che il turista può avere sul territorio. L’Ispra spiega che per “monitorare il carico del turismo sul territorio, in particolare i fattori responsabili delle pressioni e degli impatti esercitati sull’ambiente, si considera il rapporto ‘numero degli arrivi per popolazione residente’, indice del peso del turismo sulla regione, e il rapporto ‘presenze per popolazione residente’”.
È chiaro che i flussi turistici determinano un ampliamento provvisorio della popolazione e una maggiore necessità di servizi che vanno a spingere su quelle che sono emergenze costanti del sistema Sicilia, tra tutte l’assenza di una corretta depurazione che va a ricadere direttamente sulla qualità delle acque. Non è un caso che sull’Isola pendano ben tre procedure di infrazione (due allo stato di sentenza) e che appena 7 località e 20 spiagge isolane siano state premiate con le bandiere blu della Fondazione per l’educazione ambiente (Fee), a fronte di 342 distribuite alle spiagge di tutta Italia.
Non solo depurazione, ma anche rifiuti. L’assenza di controllo e di un sistema di gestione adeguato, che ad ogni estate manifesta i ben noti cumuli ai bordi delle strade, vengono appesantiti da quelli che finiscono in mare. Per Legambiente le principali fonti dei rifiuti galleggianti monitorati sono la cattiva gestione dei rifiuti urbani e dei reflui civili oltre che l’abbandono consapevole (29%) e le attività produttive, tra cui pesca, agricoltura, industria (20%).

Il pericolo petrolio è dietro l’angolo. Non ci sono soltanto le trivelle
– nel 2016 la produzione di greggio nel canale di Sicilia è stata pari a 277 mila tonnellate a fronte di 6 piattaforme e 35 pozzi, 3 concessioni (2 Eni e 1 Edison-Eni) – ma anche i trasporti. Uno studio del Rempec (Regional marine pollution emergency response centre for the mediterranean sea), effettuato nell’arco di tempo che va dal 1977 al 2003, ha censito ben 376 incidenti nel Mare nostrum con petrolio e 94 con sostanze pericolose e nocive con sversamento di petrolio e sostanze nocive e pericolose. Una decina si sono registrati nelle vicinanze delle coste isolane.


 
I costi per ripulire i litorali ricadono sui Comuni
 
PALERMO – Ripulire dalla plastica costa e grazie a uno studio recente è possibile anche scoprirne la cifra esatta. Una ricerca effettuata nei Paesi Bassi ha calcolato l’ammontare totale del costo di rimozione dei rifiuti da spiaggia effettuato in 32 comuni situati in sette Paesi differenti della zona adriatico-ionica: la cifra è di circa 6,7 milioni di euro all’anno, quasi 220 mila euro a comune.
In Sicilia questa emergenza è particolarmente evidente. Il Mediterraneo, per vocazione turistica e commerciale, è tra i mari più a rischio del mondo. Stando alle ultime rilevazioni effettuate da Goletta Verde nell’estate del 2016, rivelate lo scorso settembre a Palermo, la densità dei rifiuti riscontrata per l’intera area indagata è stata di 58 rifiuti per ogni kmq di mare. “Una densità – si legge nel comunicato – che arriva praticamente al doppio (più di 100 rifiuti al kmq) in Sicilia, dove è stato monitorato il tratto di navigazione tra Capo d’Orlando e Tindari (Me)”. Tramite il supporto dell’Ispra, Legambiente ha anche monitorato “il tratto di mare dell’Isola di Lipari dove sono stati registrati 102 micro particelle di plastica per 1000 metri cubi di acqua”.
Secondo uno studio del Centro comune di ricerca della Commissione europea, ci sono circa 250 miliardi di micro particelle di plastica che galleggiano nel Mediterraneo ed è proprio la plastica ad avere il più elevato impatto dannoso diretto e indiretto sull’ambiente marino, coinvolgendo la fauna marina che ha solo il 20% di probabilità di salvarsi quando viene intrappolata. E molti altri vengono “debilitati, mutilati e uccisi da rifiuti marini”.
 


Ma è nel mare l’occasione per la ripresa economica
 
PALERMO – Il Mediterraneo è una grande opportunità. In Europa si chiama “blue growth” e fa parte di una strategia di lungo termine che si collega alla crescita sostenibile dei settori legati al mare e al suo indotto. Stime comunitarie dicono che attualmente questo vasto sistema coinvolge 5,4 milioni di persone e produce 500 miliardi di valore aggiunto all’anno. I mari non vanno tenuti in naftalina, perché, come si legge sul portale dedicato dell’Ue, “rappresentano un motore per l’economia europea, con enormi potenzialità per l’innovazione e la crescita”.
Il V Rapporto sull’Economia del Mare, pubblicato nel 2016 da Unioncamere, ha identificato  nel Mezzogiorno e nel Centro Italia “le due macro-ripartizioni a più alta concentrazione di imprese della blue economy, con un’incidenza del 4,0% e del 4,1% sui rispettivi totali imprenditoriali regionali (in valori assoluti sono 79.989 le imprese dell’economia del mare nel Mezzogiorno e 53.901 quelle nel Centro)”.
In Sicilia l’incidenza delle imprese dell’economia del mare sul totale dell’economia della regione vale il 4,6%, cioè 20.755 aziende che operano all’interno del settore. È il quarto dato in valore assoluto che vale circa 3,9 miliardi di euro con un’incidenza del 5,1% sul totale dell’economia (dati Uniocamere 2015) per 110 mila occupati (7,4% del totale isolano).
Numeri che potrebbero crescere. Lo ha scritto l’Ispra nel rapporto “Una valutazione economica degli ecosistemi marini e un’analisi di scenario economico al 2020” che vede Sicilia e Sardegna tra le regioni più propense alla crescita, ma senza cura per la sostenibilità non si potrà da nessuna parte.

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