Risorse ingestibili per i piccoli Comuni - QdS

Risorse ingestibili per i piccoli Comuni

Rosario Battiato

Risorse ingestibili per i piccoli Comuni

giovedì 19 Ottobre 2017

Dalla nuova legge nazionale in arrivo fondi che apparati burocratici minuscoli saranno difficilmente in grado di utilizzare. Senza l’accorpamento degli Enti, in Sicilia mancati risparmi per 70 mln l’anno

PALERMO – Tre anni di attesa e poi, alla fine di settembre, la nuova norma per sostenere e valorizzare i piccoli Comuni italiani, cioè quelli inferiori ai 5 mila abitanti è stata approvata in via definitiva dal Senato, mentre adesso attende la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Un provvedimento che rilancia i borghi nazionali a rischio spopolamento, superando altri disegni di legge dall’opposto tenore – alcuni di questi, come il ddl Gualdani, prevedevano la fusione obbligatoria per quelli inferiori ai 10 mila abitanti – ma che lascia diversi dubbi circa l’effettiva capacità di progettazione e reperimento delle risorse messe a disposizione dal piano statale (100 milioni in sette anni) e dalle varie opportunità del Patto per il sud. Anche perché per i fondi a disposizione la priorità sarà data agli interventi proposti dai Comuni istituiti a seguito di fusione o appartenenti a Unioni di comuni. E in Sicilia i primi mancano e i secondi sono ancora pochi rispetto al resto del totale nazionale.
Sono due i passaggi che aprono la nuova legge approvata alla fine di settembre che prevede misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli Comuni e disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici. Al comma 1 dell’articolo 2 si legge che per “garantire uno sviluppo sostenibile e un equilibrato governo del territorio” lo Stato o altri enti di governo del territorio (Comuni, Province, Città metropolitane, etc…) possono promuovere nei piccoli centri l’efficienza e la qualità dei servizi essenziali, con “particolare riferimento all’ambiente, alla Protezione civile, all’istruzione, alla sanità, ai servizi socio-assistenziali, ai trasporti, alla viabilità, ai servizi postali nonché al ripopolamento dei predetti Comuni anche attraverso progetti sperimentali di incentivazione della residenzialità”.
Per raggiungere questi obiettivi (comma 2 dell’articolo 2) i piccoli Comuni, anche in forma associata, possono istituire “centri multifunzionali (in convenzione con prestatori di servizi come Regioni, Province, Città metropolitane, etc… nda) per la prestazione di una pluralità di servizi in materia ambientale, sociale, energetica, scolastica, postale, artigianale, turistica, commerciale, di comunicazione e di sicurezza, nonché per lo svolgimento di attività di volontariato e associazionismo culturale”.
Nessun obbligo di fusione, pertanto, né specifici indirizzi per il cumulo dei servizi a fronte di una situazione comunque problematica. In tempi recenti il processo di razionalizzazione nella gestione associata delle funzioni comunali è stato avviato con il decreto con il Decreto legge n. 78 del 2010 (convertito nella legge 30 luglio 2010, n.122) e rafforzato con l’approvazione della Legge n. 56 del 2014. Due le modalità permesse: l’associazionismo, che offre le due opzioni di convenzione e unione, e poi la fusione. Quest’ultimo è il processo più netto: trasforma un certo numero di comuni in uno nuovo e determina la cessazione degli organi dei precedenti comuni. L’Unione è più sfumata: determina un nuovo Ente (con il rischio però di aumentare i costi della politica) anche se mantiene operativi i Comuni. La convenzione è la meno invasiva: permette a diversi Enti di stipulare degli accordi (di durata almeno triennale) al fine di svolgere in maniera coordinata determinate funzioni e servizi.
In linea generale i piccoli Comuni isolani non sono stati particolarmente interessati a questi strumenti. Zero le fusioni negli ultimi vent’anni, mentre le Unioni sono state 47 (8,8% del totale nazionale) per 172 Comuni aderenti, e di questi una cinquantina sono comunque superiori ai 5 mila abitanti (dati Ancitel, società di servizi per i comuni dell’Anci). Se consideriamo che i Comuni con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti sono circa 200 in Sicilia, si tratta di un ente su due. A livello nazionale, secondo dati aggiornati al 4 ottobre del 2016 sul sito della Camera, esistono 536 unioni relative a 3.105 Enti di cui 1.004 con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti.
Il Governo, invece, pianifica l’azione privilegiano proprio fusioni e unioni (“priorità al finanziamento degli interventi proposti da Comuni istituiti a seguito di fusione o appartenenti a unioni di comuni”, si legge). Il piano, previsto nella norma, istituisce un fondo da 100 milioni di euro in sette anni (10 a partire dal 2017) per una serie di operazioni necessarie e indispensabili a rilanciare la qualità dei servizi e delle infrastrutture dei piccoli centri: banda larga, riqualificazione degli immobili abbandonati, mantenimento dei servizi postali, ma anche la possibilità di utilizzare i fondi per l’acquisto di case cantoniere o per stazioni ferroviarie abbandonate.
In ballo, insomma, c’è denaro sonante a perdere. Ai limiti precedentemente evidenziati si aggiungono: bassa propensione alla condivisione e quindi anche al miglioramento dei servizi, poco personale qualificato per la redazione e presentazione dei progetti e il tradizionale immobilismo degli Enti “superiori” come Regione ed ex Province (paralizzate da una riforma regionale confusa e pasticciata).
Oltre ai fondi del Governo, i piccoli Comuni avranno a disposizione anche un sostanzioso capitolo previsto nel Patto per il Sud. Lo scorso anno la Regione aveva fissato un piano da 250 milioni di euro per interventi di riqualificazione urbana, di questi ben 52 milioni erano destinati per i comuni fino a 5 mila abitanti.
 

 
Dalle fusioni arriverebbe un risparmio di 70 mln di euro
 
PALERMO – Le proposte di fusione si sprecano, ma la legge approvata dal Parlamento italiano alla fine di settembre procede verso tutt’altra strada. Il futuro, insomma, non è nell’eliminazione degli apparati, ma nella concessione di una seconda vita ai piccoli Comuni, cioè la possibilità concreta di recuperare collocazione sul territorio.
Di certo la tendenza è molto chiara e lo dicono i numeri. Attualmente in Italia, stando agli ultimi dati, ci sono 7.893 Enti locali, cioè il dato più basso dal 1951 quando erano stati 7.810. Soltanto la Sicilia è immobile: i 390 Comuni che c’erano nel 1991 sono rimasti e le proposte di fusione che sono state avanzate nel corso degli anni sono finite nel dimenticatoio. In Italia il clima è diverso: soltanto il tra il 2013 e il 2016 si sono tenuti in tutta Italia 141 referendum per la fusione col coinvolgimento di 402 comuni e di 1,5 milioni di persone. Nessuno di questi si è registrato in Sicilia.
I vantaggi economi derivanti dalle fusioni non sarebbero straordinari, ma comunque ci sono. In Sicilia ci sono 205 Comuni inferiori a 5 mila abitanti per 479 mila siciliani coinvolti. Una stima, basata su uno studio del dipartimento per gli Affari interni e territoriali del ministero dell’Interno, registra una spesa corrente totale pari a circa 318,5 milioni di euro al netto delle spese di personale per i 200 Enti locali isolani. Applicando ai siciliani una proiezione di riduzione dei costi, ottenuta sul dato nazionale, la spesa corrente passerebbe da 318,5 a 245 milioni di euro, permettendo nel complesso risparmi per circa 70 milioni di euro. Il dato si ottiene moltiplicando il nuovo costo pro capite, cioè 489 euro in sostituzione dei 636 del pre-accorpamento, sul mezzo milione di abitanti dei comuni siciliani.
 


Dal Governo nazionale 100 milioni per 7 anni
 
PALERMO – Il Fondo per i piccoli Comuni avrà una dotazione di 10 milioni di euro per l’anno 2017 e di 15 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2018 al 2023. Complessivamente fanno 100 milioni di euro per sette anni che serviranno per il finanziamento di “investimenti diretti alla tutela dell’ambiente e dei beni culturali – si legge nel testo del provvedimento – alla mitigazione del rischio idrogeologico, alla salvaguardia e alla riqualificazione urbana dei centri storici, alla messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e degli istituti scolastici nonché alla promozione dello sviluppo economico e sociale e all’insediamento di nuove attività produttive”.
Per l’utilizzo delle risorse del fondo, entro 180 giorni dal provvedimento, con un decreto del  presidente del Consiglio si dovrà predisporre un Piano nazionale per la riqualificazione dei piccoli comuni che dovrà assegnare delle priorità di investimento e tutti i dettagli necessari e i criteri per “le modalità per la presentazione dei progetti da parte delle amministrazioni comunali, nonché quelle per la selezione, attraverso bandi pubblici”. Con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri sono individuati, inoltre, i progetti da finanziare “assicurando, per quanto possibile, un’equilibrata ripartizione delle risorse a livello regionale e priorità al finanziamento degli interventi proposti da comuni istituiti a seguito di fusione o appartenenti a unioni di Comuni”.

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