In tempi in cui ci si accinge a celebrare il centenario dell’Unità (17 marzo 2011) bisognerebbe rileggere Francesco Saverio Nitti (1868-1953) dell’inizio del secolo scorso e vedere di cambiare l’asse attorno al quale ruota il Paese di questi, di questo secolo: “è certo che il Regno di Napoli era nel 1859 non solo il più reputato in Italia per la sua solidità finanziaria… ma anche quello che, fra i maggiori Stati, si trovava in migliori condizioni. Scarso il debito; le imposte non gravose e bene armonizzate; semplicità grande in tutti i servizi fiscali e nella Tesoreria dello Stato. Era proprio il contrario del Regno di Sardegna, ove le imposte avevano raggiunto limiti elevatissimi; dove il regime fiscale rappresentava una serie di sovrapposizioni continue fatte in gran parte senza criterio, con un debito pubblico enorme, e a cui pendeva sul capo lo spettro del fallimento”.
Il carbone settecentesco inglese come lo zolfo ottocentesco siciliano, la Sicilia come il Northumerland o il Cumberland o la Contea di Durham, zone storicamente marginali, insediamenti di aristocrazie depresse: da quei margini sortì la contemporaneità, da quelli inglesi e da quelli siciliani.
L’epopea dello zolfo (e dello zolfo nisseno) – che tra alti e bassi si concluse con l’ultima vampata della guerra di Corea del 1950 e, quindi, con la costituzione dell’Ente minerario Siciliano della legge regionale dell’11 gennaio 1963 – origina nel 1787, anno del processo Leblanc mediante cui si otteneva da un acido di zolfo, quello solforico, messo a reagire con il sale comune, la soda utilizzata nell’attività dell’industria tessile come sbiancante e colorante.
Nel 1818 un brigantino palermitano approdò in America a scaricare succo di limone, cassette di arance, zolfo. Germania, Austria, Russia, Olanda, Inghilterra, gli Stati italiani erano grandi consumatori di essenze e di agro di limone siciliani. I derivati agrumari, l’acido citrico innanzitutto, fecero di Messina e di Palermo, la Conca d’oro, due grandi centri di esportazione internazionale, come Catania lo fu per lo zolfo. E sono agrumi che rianimarono e rivalutarono le terre non irrigue a coltura intensiva, in terreni trasformati, i più redditizi d’Europa. Poi verranno gli altri agrumi, anche americani, quelli della Florida.
Fu un padre nostro, lo zolfo, di vita effimera, di una consistenza – quanto a durata e a struttura progettuale – analoga a quella dell’isola Ferdinandea che sbocciò dal mare antistante Sciacca nel luglio del 1831 e si inabissò poco dopo. Fu rimandato di sette anni lo scontro frontale tra il Regno di Napoli e Sua Maestà Britannica in disputa per la proprietà dell’isola, con la guerra minacciata del 1838 (e che non ci fu, perché realmente non voluta da nessuno delle potenze europee in riassetto antirivoluzionario dopo i moti del ‘30).
Se Caltanissetta è stata la capitale dello zolfo, Catania è stata città dello zolfo; mentre il territorio nisseno diventava un gruviera di miniere, l’affaccio a mare etneo iniziava a cingersi di ciminiere. L’apparato industriale catanese sul finire degli anni Ottanta dell’800 fu trainato dallo zolfo proveniente dai comuni di Assoro, Centuripe, Leonforte, Ramacca, Regalbuto, Raddusa, Agira. Tutti comuni, tranne due, che comporranno, assieme ad altri territori sottratti a Caltanissetta, la provincia di Enna, costituita nel dicembre del 1926. Poi verrà lo zolfo americano che annienterà gradualmente il monopolio di quello siciliano.