Magistrati con anticorpi, la Pa non ne possiede - QdS

Magistrati con anticorpi, la Pa non ne possiede

Carlo Alberto Tregua

Magistrati con anticorpi, la Pa non ne possiede

giovedì 08 Febbraio 2018

Anche il disservizio è un reato

L’enorme scandalo scoppiato martedì, conseguente alle indagini delle Procure di Roma e Messina – che vedono coinvolte il magistrato in attività Giancarlo Longo e l’altro magistrato amministrativo Riccardo Virgilio, presidente di sezione del Consiglio di Stato in pensione – è nato dalla denuncia di otto Pubblici ministeri della Procura di Siracusa.
Ecco gli anticorpi all’interno della Magistratura. In ogni famiglia vi sono le mele marce, ma se esse vengono isolate e gettate via, in quanto marce, dalla stessa famiglia, essa continuerà a mantenere il necessario prestigio di un Ordinamento costituzionale a garanzia dei cittadini.
Gli investigatori e i Pubblici ministeri titolari dell’inchiesta hanno scritto parole di fuoco sull’indegnità di chi ha tradito la propria funzione, che utilizzava per intercettare altre inchieste, in modo da neutralizzarne gli effetti contro i propri protetti.
La capacità di autoguarirsi dalle infezioni dà ulteriore sostegno al prestigio della Magistratura giudicante e requirente.
 
Nonostante la capacità investigativa dei pubblici ministeri, la quantità di possibile corruzione è enorme, con la conseguenza che essi non sono in condizione di fronteggiarla.
La vastità della corruzione è incontenibile perché il numero delle Pubbliche amministrazioni nazionali, regionali e locali, è di quasi 10 mila unità, cui bisogna aggiungere le 8 mila partecipate.
Cosicché, chi esercita il malaffare nelle amministrazioni pubbliche calcola un rischio quasi inesistente secondo il quale la probabilità di farla franca è molto elevata.
Ecco perché sarebbe necessaria una legge nazionale che prevedesse l’obbligatoria istituzione dei Nuclei investigativi anticorruzione, che avessero la funzione, appunto, di anticorpi.
Agli stessi, sarebbe affidata la missione di scoprire la corruzione ovunque essa si annidi, passando anche dalla disfunzione e dai disservizi.
La legge auspicata dovrebbe avere una seconda prescrizione, come segue: “Il disservizio è un reato”. Solo individuando le procedure che non funzionano e le motivazioni secondo cui i provvedimenti amministrativi richiesti non vengono rilasciati o rilasciati in ritardo si potrebbe scoprire tutto quello che c’è sotto.
 
Non sembri sproporzionato il paragone fra disservizio e reato. Infatti, se ci pensate bene, dietro il disservizio c’è spesso la corruzione, anche nella forma più blanda: la richiesta di un favore per ottenere un diritto.
Questa è una mentalità non ancora superata, soprattutto nel Mezzogiorno, dove occorre esercitare un’azione forte e vigorosa per lottare tale costume e sgombrare il campo dalla cultura del favore.
Un provvedimento richiesto alle Pubbliche amministrazioni deve essere rilasciato nel tempo più breve possibile, oppure negato. Non è accettabile, però, l’abitudine alle lungaggini che costringe cittadini e imprese a cercare vie brevi per ottenere quanto richiesto.
Dunque: “Il disservizio è un reato”. Il dirigente cui viene affidata una missione ha l’obbligo etico e giuridico di portarla a compimento in un certo tempo. L’obiettivo della missione deve essere confrontato con il risultato conseguito nel tempo previsto o in un maggior tempo.
 
Dall’enunciazione che precede risulta evidente come le procedure debbano essere semplici e chiare, dall’inizio alla fine, senza possibilità di interpretazioni inquinanti che possano favorire qualcuno, perché è proprio nel brodo dell’equivoco che nascono i germi del disservizio e della conseguente corruzione.
Il problema va affrontato alla radice, eliminando le cause del disservizio, perché il dirigente deve (e non può) far fronte alle proprie responsabilità senza se e senza ma.
Ovviamente al dirigente bisogna dare le leve per gestire il personale secondo regole di efficienza e secondo il principio morale che ognuno deve prima dare e poi ricevere.
Invece, nelle Pubbliche amministrazioni accade il contrario: i dirigenti non hanno alcuna responsabilità di raggiungere gli obiettivi anche perché essi non sono individuati in modo chiaro. Tutti i dirigenti ricevono gli stessi compensi a prescindere dalle loro qualità, positive o negative, e dalla loro partecipazione attiva al funzionamento della macchina pubblica oppure al loro menefreghismo.
Insomma, non vige il principio premiosanzionatorio, con la conseguenza che ognuno fa quello che vuole.

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